“Amerai!”: non un comando, ma una promessa

da | Ott 1, 2017 | Formazione vincenziana, La Parola per la Chiesa, Per la meditazione | 0 commenti

Omelia del Vescovo di Rimini su Mc 12, 28-34

nel quarto centenario del Carisma Vincenziano

e del 40° di fondazione della Caritas diocesana

Rimini, Festa di san Vincenzo de’ Paoli, 27 9.2017

Cosa c’è al centro del centro della nostra fede? Abbiamo ascoltato: “Amerai Dio con tutto il cuore. Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Gesù non aggiunge nulla a quanto già prescriveva la legge antica: il primo e il secondo comandamento si trovano tutt’e due già nell’Antico Testamento. La novità di Gesù si riscontra nell’averne fatto un solo comandamento: Amerai. Ne segue che i due comandamenti non possono essere separati né semplicemente sovrapposti. Né divisi né confusi: quando ciò è avvenuto, ne sono cominciati i nostri mali. I due ‘amori’ vanno piuttosto incrociati, proprio come due legni che per formare una croce non devono essere congiunti in parallelo né disgiunti l’uno dall’altro. Il palo verticale dice l’amore di Dio, senza il quale il palo orizzontale non si sorregge. Ma d’altra parte non si può amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede (1Gv 4,20).

1. In effetti un amore per Dio senza l’amore per il prossimo rischia una verticalità esile. Viceversa un amore per il prossimo senza radicamento in Dio rischia una orizzontalità fragile. Monsieur Vincent insegna:

Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato la preghiera. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Dio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate la preghiera per assistere un povero, sappiate che fare questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.

Questa è la carità: un amore umano che si apre a Gesù. Altrimenti si riduce a un soggettivismo chiuso e narcisista. Gesù infatti non è solo un modello esemplare che ci sta davanti, ma il motore propulsivo che ci sta dentro, il “Cristo che vive in me”, che pulsa in noi. In Gesù palpita il cuore di Dio e il cuore dell’uomo: è il buon Pastore la misura alta dell’amore e insieme la sua limpida sorgente. Ancora san Vincenzo:

Ricordati, fratello, che viviamo in Gesù Cristo, per la morte di Gesù Cristo, e che dobbiamo morire in Gesù Cristo per vivere di Gesù Cristo, e che la nostra vita deve essere nascosta in Gesù Cristo e piena di Gesù Cristo, e che per morire come Gesù Cristo dobbiamo vivere come Gesù Cristo.

Ed ecco la regola che Vincenzo de’ Paoli assegna alle ‘dame della carità’:

Le Figlie della Carità avranno come monastero le case dei malati. Per cella una camera in affitto. Per cappella la chiesa parrocchiale. Per chiostro le strade della città. Per grata l’amore di Dio. Per professione la continua fiducia nella Provvidenza, l’offerta di tutto quello che sono.

2. Oggi noi celebriamo la festa di san Vincenzo de’ Paoli in occasione dell’anno quattro volte centenario della fondazione delle Figlie della Carità e nel 40° di fondazione della Caritas diocesana. L’albero della nostra Caritas segna 40 giri nel suo tronco, che corrispondono a 40 anni di frutti buoni e benedetti. Ne ricordiamo alcuni: mensa quotidiana per oltre 200 persone al giorno; 13 dossier annuali sulla povertà; 363 famiglie sostenute con oltre 81mila prodotti alimentari con l’EmporioRimini; 117 disoccupati assunti con il Fondo per il lavoro; 14 anni di mostre presepi dal mondo; una cinquantina del giro nonni; uno sportello-carcere; circa 200 bambini operati negli ultimi dieci anni.

Il passato non è finito, anzi continua a crescere, e il futuro è già cominciato… Ho pensato quindi di riprendere quattro percorsi che la nostra Caritas sta perseguendo e raccomandarvi di continuare ad andare avanti sulla strada di quella che potremmo chiamare la Caritas dalle quattro coniugazioni.

La prima è la coniugazione di carità e giustizia. Rimane fondamentale tenere in costante tensione queste due virtù-sorelle evitando equivoche alternative, e coltivando invece un corretto, fecondo rapporto, secondo il forte richiamo del concilio: “non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (AA 8). In effetti la carità non va contro la giustizia, ma va oltre. Poiché la giustizia guarda ai diritti del prossimo, la carità guarda ai suoi bisogni. E si impegna a far sì che i bisogni, quando sono autentici, vengano riconosciuti come diritti. Del resto la carità non si può mai ridurre alla beneficenza occasionale: perché la carità coinvolge e crea un legame, la beneficenza si accontenta di un gesto sporadico. E’ la dimensione pubblica e politica della carità, che non può mai essere relegata a un ruolo privatistico, ridotta a una saltuaria azione assistenziale, o alla pura filantropia, ma deve essere estesa al vasto mondo delle istituzioni, della politica, dello sviluppo, se non vuole scivolare sul piano inclinato dell’assistenzialismo.

La seconda coniugazione è tra formazione e organizzazione. Una organizzazione senza formazione è come un corpo senz’anima: un gelido, inerte cadavere. Ma una formazione senza organizzazione è, al contrario, come un’anima senza corpo. Anche qui la lezione di Monsieur Vincent è di una stupefacente attualità. Ha pensato fin da subito alla formazione dei futuri pastori, fondando un futuro seminario per loro. Ma ha pensato anche ad organizzare le sue ‘dame’ riunendole in associazione. Ha dato loro una regola che, secondo gli storici, era “un piccolo capolavoro di organizzazione e di tenerezza”, nella quale era previsto tutto: innanzitutto come servire gli ammalati per amore di Gesù, ma poi come dar loro da mangiare, come accostare la famiglia bisognosa, come e con quale ordine garantire un servizio a rotazione, come procurarsi gli aiuti necessari e tenere la contabilità, come utilizzare intelligentemente il tempo disponibile…

La terza coniugazione è tra la misericordia corporale e quella spirituale. Seguendo l’esempio di Gesù, il vero buon Samaritano, l’amore preferenziale per i poveri non si può fermare alle povertà materiali dei nostri fratelli. Occorre rispondere anche alle povertà umane più profonde e radicali, che toccano lo spirito dell’uomo e il suo assoluto bisogno di salvezza. E che oggi, in un paese come il nostro, sono anche socialmente le più diffuse e non di rado le più gravi. Espressioni concrete di tale opere possono essere ad esempio l’aiuto dato a chi ricerca la verità e a chi ha bisogno di riscoprire il volto di Dio e del suo amore, la presentazione di valori autentici a chi li ha smarriti, la vicinanza e la condivisione di chi soffre di solitudine e di angoscia, perché ritrovi un senso alla vita e una speranza per il suo futuro prossimo e per l’eterno presente oltre la morte.

La quarta coniugazione è tra la cultura della carità e la carità della cultura. Non è un gioco di parole né questione di retorica. è questione di vita o di morte. Oggi la Chiesa è chiamata a promuovere una cultura che si prefigge «l’inclusione sociale dei poveri» perché essi «hanno un posto privilegiato» nel popolo di Dio (EG 186-216). E proprio perché «non amiamo a parole ma con i fatti» il Papa ha istituito la Giornata mondiale del poveri che si celebrerà per la prima volta il 19 novembre. La cultura della carità è anche sinonimo della cultura di una vita, che va difesa sempre: sia che si tratti di salvare l’esistenza di un bambino nel grembo materno o di un malato grave; e sia che si tratti di uomo o una donna venduti da un trafficante di carne umana. Ma questa cultura della carità per essere efficace si deve accoppiare a una carità della cultura. La testimonianza della carità va “pensata in grande” e articolata nelle sue molteplici e correlate dimensioni. Investe l’obiettivo della pace, della solidarietà tra le nazioni, dell’unità dei popoli a livello planetario. Si estende alle sterminate moltitudini di affamati, di mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica, senza speranza di un futuro migliore. A sua volta l’impegno per la custodia del creato rappresenta una urgenza centrale e imprescindibile del nostro tempo. In questo, che papa Francesco ha definito “un cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamento” si impone, di conseguenza, un cambiamento di mentalità, non solo per contrastare le gelide correnti inquinate di xenofobia, che purtroppo attraversano anche vari ambienti che pur si definiscono ‘cattolici’, ma soprattutto per mostrare e dimostrare la bellezza e la vivibilità di una vita che si voglia all’altezza di una umanità degna di questo nome.Carissimi tutti, Direttore, Collaboratori, Operatori della Caritas diocesana, questi sono i percorsi che mi sento di rilanciarvi. Voi ce li avete già indicati con il vostro fecondo passato e continuate a segnalarceli con il vostro vivace presente. Preghiamo perché proseguiamo insieme a percorrerli anche in futuro.

+ Francesco Lambiasi

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