Giustizia: in carcere “rivoluzione culturale possibile”, contro la sofferenza estrema e illegale

da | Lug 15, 2010 | Carcere, Economia sociale, Giustizia e Legalità, Opinioni a confronto, Storia e cronaca | 0 commenti

Europa Quotidiano, 8 luglio 2010

di Lucia Castellano (direttore casa di Reclusione di Milano-Bollate)

“Questa estate rischia di essere ricordata come quella della rivolta e dei suicidi in carcere”. Così l’onorevole Alfonso Papa presenta alla camera il ddl Alfano che prevede la detenzione domiciliare per i condannati che abbiano da scontare ancora un anno di detenzione. Come dargli torto? Abbiamo appena superato la metà dell’anno e contiamo già 33 suicidi in galera. Più di cinque al mese, più di uno alla settimana. 97 i morti in carcere, in totale, quest’anno.

In più, livelli di sovraffollamento insopportabili. Al 31 maggio, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria registrava una presenza di 67.601 persone, a fronte di una capienza tollerabile di 44.592. Il caldo, com’è noto, rende tutto più difficile.

Perché questa emergenza? I reati non sono aumentati, i detenuti aumentano a dismisura; quindi, il carcere si configura sempre di più come l’unica risposta punitiva che riusciamo a immaginare. Il nostro apparato legislativo ne prevede in realtà molte altre, ma una riflessione su questo tema ci porterebbe fuori strada. Le carceri scoppiano, che fare?

La risposta politica sembra chiara: costruire nuovi istituti, nel segno di una detenzione più umana, che riconosca i diritti fondamentali dell’individuo e si adoperi per il suo reinserimento sociale. Il ministro Alfano ha appena inaugurato l’Agenzia per il collocamento al lavoro dei detenuti, e contemporaneamente ha annunciato l’immediata assunzione di mille agenti di polizia penitenziaria, a cui seguirà quella di altri mille in tempi brevi. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria esorta, con forza, le direzioni degli istituti a garantire una gestione del quotidiano improntata all’apertura, all’incontro con la società civile, alla lotta all’ozio e all’isolamento.

Chiede ai direttori di consentire ai volontari di stare accanto ai detenuti “almeno fino alle ore 18”; si sa, infatti, che il carcere, pur essendo operativo 24 ore su 24, poiché abitato da persone, chiude i battenti al pubblico esterno al massimo alle 16.00, e i pomeriggi d’estate, in 7 o 8 in celle da 2 o 4 persone, sono lunghi da passare. Ma soprattutto, il Dipartimento chiede che sia tutelato il diritto all’affettività dei detenuti; li autorizza a telefonare sul telefono cellulare, innovazione notevole considerato che, soprattutto fra gli stranieri, i telefoni fissi non esistono quasi più.

In ogni regione, i Provveditori riuniscono i direttori per esortarli a far fronte all’emergenza facendo appello all’umanizzazione della pena. Non solo. L’emergenza carceri è subita anche da chi lavora negli istituti. La polizia penitenziaria, gli educatori, i medici, gli infermieri si trovano a fronteggiare questa umanità dolente in pochi, in un periodo in cui gli affetti familiari reclamano la loro presenza a casa. E bisogna che chi dirige ne tenga conto, e non sacrifichi i diritti alle ferie e ai riposi sull’altare dell’emergenza.

Altri rimedi per attenuare la sofferenza estrema, illegale, che il carcere impone ai propri ospiti e ai propri dipendenti? Forse una strada c’è, ed è ben tracciata da un apparato normativo che dal 1975 ad oggi non ha mai smesso di imporre all’Amministrazione di costruire un quotidiano penitenziario basato sul riconoscimento dei diritti fondamentali della persona. Il che vuol dire, in sintesi, riconoscere al detenuto tutta la libertà possibile (di autodeterminazione, di decisione, di organizzazione, di movimento) compatibile con la presenza del muro di cinta. È il muro che segna la pena, qualunque altra restrizione è afflittività aggiuntiva, “contra legem”.

Questo è forse il salto più difficile , anche perché il sovraffollamento non aiuta. Ribaltare il rapporto tra istituzione e detenuto da quello di potere assoluto a quello di servizio pubblico all’ utenza (esattamente come gli ospedali o le scuole).

Ci vuole coraggio, ma siamo sostenuti dalla legge; e, soprattutto, ribaltando, con una rivoluzione culturale, l’assetto organizzativo del carcere potremo finalmente sondare la capacità del detenuto di affrontare, progressivamente la libertà. Quale “revisione critica del proprio passato” possiamo accertare in una persona che non è libera nemmeno di muoversi all’interno dell’istituto? Il carcere che funziona deve produrre la definitiva libertà dei propri abitanti e abbattere la recidiva. Cominciamo, anche nel marasma del sovraffollamento. Il Dap ci da indicazioni concrete in tal senso. Considerare il detenuto una persona capace di decidere, con cui stabilire un rapporto umano significativo, che non annienti la sua individualità, ma la riconosca, forse abbatte il rischio di suicidio. Ci si uccide non solo perché si sta stretti in cella, ma anche e soprattutto perché in galera nessuno davvero ti vede e ti riconosce.

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