11 settembre: San Giovanni Gabriele Perboyre

da | Set 9, 2018 | Per la meditazione, Storia e cronaca | 0 commenti

Nato a Montgesty nel 1802 e ordinato sacerdote a Parigi nel 1826, Giovanni Gabriele Perboyre desiderando ardentemente di darsi alle missioni estere si recò in Cina e nel 1832 approdò a Macao. Qui esercitò il suo apostolato tra i cristiani nonostante i pericoli della persecuzione. Tradito da uno dei suoi discepoli, fatto prigioniero, fu torturato a lungo e subì il martirio a Outchanfou l’11 settembre del 1840. Tra i cristiani rimasti fedeli, alcuni presero il corpo e gli diedero sepoltura nel luogo della sua predicazione, dove rimase finché non venne traslato nella Casa Madre della Congregazione dei Preti della Missione (Lazzaristi). Fu beatificato il 10 novembre del 1889 e fu canonizzato il 2 giugno del 1996. La sua memoria liturgica ricorre l’11 settembre.

Gli anni della formazione

Nulla avviene per caso. Non la vita, non la morte, non la vocazione. Giovanni Gabriele Perboyre nacque a Montgesty, vicino a Cahors, nella Francia meridionale, il 6 gennaio 1802 in una famiglia che donò alla Chiesa tre missionari di san Vincenzo e due Figlie della Carità. In un simile ambiente respirò la fede, dei valori semplici e sani e il senso della vita come dono.

Nell’adolescenza, Colui che ” chiama per nome ” sembrò ignorarlo. Si rivolse al fratello minore Luigi perché entrasse in seminario. A Giovanni Gabriele fu chiesto di accompagnare il fratello minore per qualche tempo, in attesa che si abituasse al clima dell’ambiente. Era dunque capitato per caso, e avrebbe dovuto uscirne presto. Ma il caso svelò agli occhi stupiti del giovane orizzonti inaspettati; fu così che in seminario trovò la sua strada.

La Chiesa di Francia era allora appena uscita dall’esperienza della Rivoluzione francese con le vesti color porpora per il martirio di alcuni, ma con il dolore per l’apostasia di molti. Il panorama ai primi dell’800 era desolante: edifici distrutti, conventi saccheggiati, anime senza pastori. Non fu pertanto un caso che l’ideale sacerdotale apparisse al giovane non come una blanda sistemazione per la vita, ma come il destino degli eroi.

I genitori, sorpresi, accettarono la scelta del figlio e lo accompagnarono con il loro incoraggiamento. Non a caso lo zio paterno Giacomo era stato missionario di S. Vincenzo. E questo spiega perché nel 1818 maturò nel giovane Giovanni Gabriele l’ideale missionario. Allora la missione voleva dire principalmente la Cina. Ma la Cina era un miraggio lontano. Partire voleva dire non ritrovare più l’atmosfera di casa, gustarne i profumi, goderne gli affetti. Fu naturale per lui scegliere la Congregazione della Missione fondata da S. Vincenzo de Paoli nel 1625 per evangelizzare i poveri, formare il clero, ma soprattutto spingere gli stessi missionari alla santità. La missione non è propaganda. Da sempre la Chiesa ha preteso che gli annunciatori della Parola fossero persone interiori, mortificate, piene di Dio e di carità. Per illuminare le tenebre dell’uomo non basta la lampada, se manca l’olio.

Giovanni Gabriele non pensò a mezze misure. Se fu martire è perché fu santo.

Dal 1818 al 1835 fu missionario in patria. Prima, nel periodo di formazione, fu un modello di novizio e di studente. Dopo l’ordinazione sacerdotale (1826) fu incaricato della formazione dei seminaristi.

L’attrattiva missionaria

Un fatto nuovo, non certo casuale, venne a modificare la sua vita. Protagonista fu ancora una volta il fratello Luigi. Era entrato anche lui nella Congregazione della Missione e aveva chiesto di essere mandato nella Cina, ove, nel frattempo i figli di S. Vincenzo avevano avuto un nuovo martire, nella persona del b. Francesco Régis Clet (18 febbraio 1820). Ma durante il viaggio il giovane Luigi, a soli 24 anni fu chiamato alla missione del cielo.

Tutto quanto il giovane aveva sperato e fatto si sarebbe rivelato inutile, se Giovanni Gabriele non avesse fatto domanda di sostituire il fratello sulla breccia.

Giovanni Gabriele raggiunse la Cina nell’agosto del 1835. Allora in occidente si conosceva quasi nulla del Celeste Impero, e l’ignoranza era contraccambiata. I due mondi si sentivano attratti, ma il dialogo era difficile. Nei paesi europei non si parlava di una civiltà cinese, ma solo di superstizioni, di riti e usanze ” ridicole “. I giudizi erano dunque pregiudizi. Non migliore era l’apprezzamento che la Cina aveva dell’Europa e del cristianesimo.

Fra le due civiltà c’era un solco oscuro. Occorreva che qualcuno lo attraversasse, per portare su di sé il male di molti, e bruciarlo nella carità.

Giovanni Gabriele dopo essersi ambientato a Macao, iniziò un lungo viaggio in giunca, a piedi o a cavallo, che dopo 8 mesi lo portò nell’Henan, a Nanyang, ove si impegnò ad imparare la lingua.
Dopo 5 mesi era in grado di esprimersi, pur con qualche fatica, in un buon cinese, e subito si lanciò nel ministero, visitando le piccole comunità cristiane. Poi fu trasferito nell’Hubei, che fa parte della regione dei laghi formati dallo Yangtze Kiang (fiume azzurro). Nonostante l’intenso apostolato egli soffriva molto nel corpo e nello spirito. In una lettera scriveva: ” No, non sono un uomo che faccia meraviglie qui in Cina come non le facevo in Francia… Domanda la mia conversione e la mia santificazione, e la grazia che non guasti troppo la sua opera”. Per chi vede le cose dall’esterno, era inconcepibile che un simile missionario si trovasse in una notte oscura. Ma lo Spirito Santo lo preparava, nel vuoto dell’umiltà e nel silenzio di Dio, alla testimonianza suprema.

In catene per Cristo

Improvvisamente nel 1839 due fatti, apparentemente senza collegamento, vennero a turbare l’orizzonte. Il primo è lo scoppio delle persecuzione, dopo che l’imperatore mancese Quinlong (17361795) aveva proscritto nel 1794 la religione cristiana.Immagine correlata

II secondo è lo scoppio della guerra cino-britannica, meglio conosciuta come ” guerra dell’oppio ” (1839-1842). La chiusura delle frontiere della Cina e la pretesa del governo cinese di esigere un atto di vassallaggio dagli ambasciatori stranieri aveva creato una situazione esplosiva. La scintilla venne dalla confisca di carichi di oppio stivati nel porto di Canton, a danno di mercanti per la maggior parte inglesi. La flotta britannica intervenne, e fu guerra.

I missionari, interessati evidentemente solo al primo aspetto, erano sempre all’erta. Come spesso succede, i troppi allarmi diminuirono la vigilanza. È quanto accadde il 16 settembre 1839 a Cha-yuen-ken, ove Perboyre risiedeva. In quel giorno si trovava con due altri missionari europei, il confratello Baldus e il francescano Rizzolati, e un missionario cinese, il p. Wang. Venne segnalata una colonna di un centinaio di soldati. I missionari sottovalutarono le informazioni. Forse andavano da un’altra parte. E invece di essere cauti, continuarono nel piacere di un fraterno colloquio.

Quando non ci fu più dubbio della direzione dei soldati, era tardi. Baldus e Rizzolati decisero di fuggire lontano. Perboyre di nascondersi nelle vicinanze, dato che le montagne vicine erano ricche di foreste di bambù e di grotte nascoste. I soldati però con le minacce, come ci ha attestato il padre Baldus, costrinsero un catecumeno a rivelare il luogo ove il missioanrio si nascondeva. Fu un debole, ma non fu un Giuda.

Iniziò il triste Calvario di Giovanni Gabriele. Il prigioniero non aveva diritti, non era tutelato dalla legge, ma era all’arbitrio dei carcerieri e dei giudici. Dato che era in stato d’arresto si presumeva che fosse colpevole, e se colpevole, poteva essere punito.

Cominciò la serie dei processi. Il primo si tenne a Kou-ChingHien. Furono epiche le risposte del martire:
– Sei un prete cristiano?
– Sì, sono prete e predico questa religione.
– Vuoi rinunciare alla tua fede?
– Non rinuncerò mai alla fede di Cristo.

Gli chiesero di tradire i compagni di fede e le ragioni per cui aveva trasgredito le leggi della Cina. Si voleva insomma trasformare la vittima in colpevole. Ma un testimone di Cristo non è un delatore.

Perciò tacque.

Il prigioniero fu poi trasferito a Siang-Yang. Gli interrogatori si fecero serrati. Fu tenuto per diverse ore in ginocchio su catene di ferro arrugginite, fu sospeso per i pollici e i capelli a una trave (supplizio dello hangtzé), venne battuto più volte con le canne di bambù. Ma più che la violenza fisica, rimase ferito dal fatto che furono messi in ridicolo i valori in cui credeva: la speranza della vita eterna, i sacramenti, la fede.

Il terzo processo si tenne a Wuchang. Fu convocato da 4 diversi tribunali e fu sottoposto a 20 interrogatori. Alle domande si univano le torture e il dileggio più crudele. Si processava il missionario, ma intanto si calpestava l’uomo. Furono costretti dei cristiani all’abiura, e qualcuno di essi addirittura a sputare e percuotere il missionario, che aveva portato loro la fede. Per non aver calpestato il crocifisso, ricevette 110 colpi di pantsé.

Fra le varie accuse la più terribile fu quella di aver avuto rapporti immorali con una ragazza cinese, Anna Kao, che aveva fatto voto di verginità. Il martire si difese. Non era né la sua amante né la sua serva. La donna è rispettata non vilipesa dal cristianesimo, fu il senso delle risposte di Giovanni Gabriele. Ma rimase turbato perché facevano soffrire, per causa sua, degli innocenti.

Durante un interrogatorio fu costretto a rivestirsi dei paramenti della Messa. Volevano accusarlo di usare il fascino del sacerdozio per interessi privati. Ma il missionario, con gli abiti sacerdotali, impressionò gli astanti, e due cristiani si avvicinarono a lui per chiedergli l’assoluzione.

II giudice più crudele fu il viceré. Il missionario era ormai un’ombra. La rabbia di questo uomo senza scrupoli si accanì contro una larva di uomo. Accecato dalla sua onnipotenza voleva confessioni, ammissioni, delazioni. Ma se il corpo era debole, l’anima si era rinforzata. La sua speranza era ormai l’incontro con Dio, che ogni giorno più sentiva vicino.

Quando per l’ultima volta Giovanni Gabriele gli disse: ” Piuttosto morire che rinnegare la mia fede “, allora il giudice pronunciò la sua sentenza. E fu di morte per strangolamento.

Con Cristo sacerdote e vittima

Iniziò un periodo di attesa della conferma imperiale. Forse si poteva sperare nella clemenza del sovrano. Ma la guerra con gli inglesi cancellò ogni possibile gesto di benevolenza. Cosicché l’ 11 settembre 1840 un messo imperiale arrivò a briglia sciolta, portando il decreto di conferma della condanna.

Con sette banditi il missionario fu condotto su un’altura chiamata la ” Montagna rossa “. Furono prima uccisi i banditi, e il Perboyre si raccolse in preghiera, fra la meraviglia dei presenti.

Venuto il suo turno, i carnefici lo spogliarono della tunica purpurea e lo legarono a un palo a forma di croce. Gli passarono la corda al collo e lo strangolarono. Era l’ora sesta. Come Gesù Giovanni Gabriele morì come il chicco di frumento. Morì, o meglio nacque al cielo, per far scendere sulla terra la rugiada della benedizione di Dio.

Molte circostanze della sua detenzione (tradimento, arresto, morte in croce, giorno e ora) lo avvicinano alla Passione di Cristo. In realtà tutta la sua vita fu quella di un testimone e di un discepolo fedele di Cristo. Ha scritto s. Ignazio d’Àntiochia: ” Io cerco colui che è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto. Ecco, è vicino il momento in cui io sarò partorito! Abbiate compassione di me, fratelli! Non impedite che io nasca alla vita! “.

Giovanni Gabriele ” nacque alla vita ” l’ 11 settembre 1840, perché sempre aveva cercato ” colui che è morto per noi “. Il suo corpo fu riportato in Francia, ma il suo cuore rimase nella patria elettiva, in terra di Cina. È là che ha dato un appuntamento ai figli e figlie di S. Vincenzo, in attesa che anch’essi, dopo una vita spesa per il Vangelo e per i poveri, nascano al cielo.

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