Prima Walter e ora Alessandro: due morti che indignano

da | Giu 9, 2011 | Carcere, Giustizia e Legalità, Storia e cronaca | 0 commenti

di Elton Kalica (Ristretti Orizzonti)

Tra il caldo e la solitudine di una cella, il tempo che non passa mai. Certo, si può andare due ore all’aria e prendere il sole in una vasca di cemento, chiamata passeggi, oppure chiedere di andare in doccia e temporeggiare in corridoio salutando qualcuno. Ma si tratta sempre di due ore alla mattina e due al pomeriggio, mentre le rimanenti 20 ore della giornata si rimane in cella, a oziare.
Alessandro Giordano, salernitano di trentotto anni, solo due settimane fa aveva visto Walter, il suo compagno di cella, morire: entrambi, con lunghi percorsi di tossicodipendenza, non facevano altro che prendere la solita terapia di psicofarmaci fornita dall’infermeria del carcere. Che evidentemente non bastava per alleviare il loro malessere, tanto che forse inalavano il gas del fornellino per fuggire dalla realtà.

Dopo la morte di Walter, la loro cella era diventata una scena da analizzare dalla scientifica che faceva indagini per conto del Tribunale. Pertanto Alessandro e l’altro compagno di cella erano stati trasferiti in un’altra cella al secondo piano, a fare le stesse cose che facevano nella cella di prima, e cioè nulla.

In condizioni normali, guardare un amico morire è una cosa che ti segna per il resto della vita. In galera evidentemente le cose non funzionano così. La depressione prevale e il malessere ti rende indifferente ai rischi. Al punto che, solo dopo due settimane, Alessandro pare sia ritornato a sniffare gas nello stesso modo di Walter, e forse è morto nello stesso modo: un tentativo di staccarsi da questa realtà che l’ha portato a staccarsi dalla vita, se mai si possa chiamare vita quella che molte persone fanno qui dentro.

Ora che la cella di Alessandro diventerà un luogo da analizzare da parte delle autorità giudiziarie, tutti si chiedono se il terzo ragazzo, dopo aver visto morire i due amici, sarà aiutato in qualche modo a uscire dall’isolamento e a trovare qualche motivo di speranza. Le opinioni sono diverse, ma alcune persone con i loro stessi problemi di tossicodipendenza, mi dicono che se la “cura” continua a essere prendere psicofarmaci e rimanere in branda a guardare il soffitto, il destino di queste persone è già segnato.

Questi ragionamenti mi spaventano, ma so che almeno su una cosa hanno ragione: se quella del “a me non potrà capitare mai” è una leggerezza molto diffusa nella società di oggi, qui dentro, la convinzione di essere più forti del destino si mischia alla rassegnazione verso la disumanità del luogo in cui si è chiusi, facendo una miscela che, se non è esplosiva, è a volte disperata, come queste due morti che ci indignano.

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