. Ricorre oggi la memoria liturgica di Beata Nemesia (Giulia) Valle Suora della Carità di santa Giovanna Antida Thoure.
Giulia Valle nacque ad Aosta il 26 giugno 1847, donando tanta felicità ad una coppia giovane e benestante che aveva già perso prematuramente i due figli precedenti; seguì la nascita di Vincenzo. Purtroppo gli anni sereni furono pochi, la mamma morì giovanissima, Giulia aveva solo quattro anni. Il padre era spesso via per affari, ospiti della casa un po’ austera del nonno paterno, i due fratelli percepirono tutta la tristezza di essere orfani. Si trasferirono, in seguito, presso i parenti materni, dove, in un’atmosfera più tranquilla, ricevettero in casa una buona istruzione. Giulia aveva un carattere forte, simile alle montagne che circondano la sua città, e sentimenti puri, come l’aria che si respira tra quei monti. Arrivò ad un certo punto la decisione di iscriverla ad un collegio, venne scelto uno lontano da casa, a Besançon, gestito dalle Suore della Carità di S. Giovanna Antida. Più di tutto le pesò il distacco dal fratello, verso cui provava l’affetto di una madre.
In collegio trovò serenità e accoglienza; i quattro anni lì trascorsi segneranno il suo futuro. Dopo una vacanza premio a Bordeaux e Parigi tornò in famiglia. Il padre, trasferitosi nel frattempo a Pont St. Martin, aveva una nuova moglie: per i due fratelli si rivelò una matrigna. Se Giulia era più remissiva, Vincenzo non riusciva proprio a sopportarla: a 16 anni lasciò la casa. In un lungo abbraccio le promise che avrebbe scritto, per motivi sconosciuti Giulia non avrà mai più sue notizie. Questo dolore l’accompagnerà per tutta la vita. Molti anni dopo, quando ormai anziana per abitudine non amava parlare della sua adolescenza, gli unici sospiri che manifestava erano per lui.
Giulia aveva 18 anni e partito il fratello, solo una cosa nessuno poteva toglierle: la fede. Strinse un forte legame con la piccola comunità di suore presente nel paese; erano della stessa congregazione di Besançon.
Un giorno, com’era naturale, arrivò una buona proposta di matrimonio. Il padre glielo comunicò con un certo orgoglio, ma Giulia, risoluta, trovò il coraggio di manifestare la volontà di diventare suora della carità. Era una decisione meditata a fondo. Il padre non nascose il disappunto, ma nemmeno la ostacolò. L’8 settembre 1866 sarà lui che la condurrà in carrozza a Vercelli dove, nel monastero di S. Margherita, c’era il noviziato. Era un nuovo distacco, definitivo, per una vita nuova.
Incontrò le difficoltà di tutte le novizie: doveva assimilare le regole dell’istituto e dimenticare le comodità del passato. Un giorno, mentre era intenta con altre compagne a riordinare una stanza, dalla strada sentì una musica che tante volte aveva ballato. Abbracciato un cuscino, improvvisò una danza nell’allegria generale. Non tardò ad arrivare la punizione che lei accettò serenamente. Cresceva intanto la sua spiritualità, secondo il carisma della fondatrice “Dio solo”, ripeteva “veramente in Dio solo dobbiamo mettere tutta la nostra felicità”. Il modello a cui guardava era la Madonna. Perfezionò la sua formazione, alternando lo studio ai lavori di cucina, per lei inusuali. Il 29 settembre 1867 indossò l’abito, divenendo suor Nemesia. Due mesi dopo, conseguito il diploma di maestra, fu destinata all’Istituto S. Vincenzo di Tortona che comprendeva un collegio, una scuola e un orfanotrofio. Vi resterà 35 anni.
Le fu affidata una prima elementare. All’inizio sembrò soccombere di fronte all’esuberanza delle bambine, ma la bontà e l’umiltà, che sempre premiano, ebbero la meglio. Diceva: “Sii paziente, sii umile: ci guadagnerai sempre!”. Purtroppo, com’era all’epoca consuetudine, vi era un trattamento differente tra le orfanelle e le educande, suor Nemesia fece il possibile per eliminarlo almeno nell’insegnamento. Cercò di trasmettere l’amore per la bellezza del creato attraverso lo studio e l’osservazione dell’arte e della natura. Un’alunna, dopo tanti anni, dirà: “ci conosceva ad una ad una, sapeva capirci”. Il 15 ottobre 1873 fece la professione. Oltre ai voti di povertà, castità, obbedienza, c’era quello peculiare della congregazione: assistere materialmente e spiritualmente i poveri. Lo realizzò appieno per il resto della vita. Dopo qualche anno si dedicò esclusivamente all’insegnamento del francese, ma era la sua bontà ad affascinare tutti, dentro e fuori la Casa. Bontà non significò debolezza, quando era necessario rimproverava, anche severamente.
Nel 1886, alla morte della superiora di cui era il braccio destro, era naturale che fosse lei la designata alla successione. Provò uno smarrimento iniziale, per la consapevolezza dell’alta responsabilità e per il fatto che non avrebbe avuto più tanto tempo da dedicare alle sue ragazze. Poi comprese che come superiora sarebbe stata più libera nelle opere di carità, soprattutto fuori dall’istituto. “Al mattino prestissimo scivolava, non notata, fra le vie più nascoste a portare essa stessa, con il dono materiale, il conforto della sua bontà ai poveri più poveri e dimenticati”.
Gli impegni erano tanti, doveva anche far quadrare i conti sempre in rosso, ma se qualcuno chiedeva di parlarle ascoltava attentamente, come se non avesse nessun altro pensiero. Non mancarono gli attriti con le consorelle, ma la sua calma era disarmante. Sferruzzava continuamente, anche quando parlava con persone importanti, provvedendo così alla biancheria delle orfanelle, dei seminaristi per cui aveva una speciale predilezione e anche dei soldati del vicino distretto militare. Le generazioni si susseguivano: tutti volevano mantenere i rapporti con suor Nemesia, andavano anche per presentare un fidanzato o far conoscere un bimbo appena nato. Lei, che non aveva conosciuto il calore materno, ebbe sempre un’attenzione particolare per le orfanelle, cercava di aiutarle anche quando lasciavano l’istituto.
I soldi non bastavano mai, ma nonostante ciò aiutava le missioni. Il direttore spirituale dell’istituto, don Giuseppe Carbone, fattosi cappuccino, partì per l’Eritrea. Lei lo sostenne e con tante iniziative raccolse denaro per aiutarlo. Nacque così il primo circolo missionario della città. Incoraggiò pure un altro direttore dell’istituto, Don Daffra, quando fu eletto vescovo di Ventimiglia. Gli preparò, con l’amore di una mamma, gli abiti pontificali. “Oh, il cuore di Suor Nemesia!” esclamavano tutti. Aiutò come poté il giovane S. Luigi Orione e ospitò più volte la B. Teresa Grillo Michel. Restò sempre umile, “Lodata da tanti ammiratori delle sue Opere, sapeva con una parolina, con uno scherzo piacevole, declinare le lodi e riversarle dolcemente sugli interlocutori”.
Nel 1901, per ristabilirsi da una malattia, la beata Nemesia soggiornò per qualche tempo nei pressi dei Santuari di Crea e di Varallo. Il 10 maggio 1903, dopo 35 anni trascorsi a Tortona, arrivò l’ordine che nessuno si aspettava: partire per un nuovo incarico. Una nuova comunità nasceva vicino a Torino per accogliere le tante vocazioni di quegli anni: occorreva una maestra delle novizie straordinaria. Non riuscì a guardare negli occhi coloro ai quali doveva dare l’addio, partì alle 4 del mattino salutando con una lettera. ” Vi assicuro che, col pensiero vi seguirò in cappella, in classe, in giardino…vi ho mandato il mio bacio e l’abbraccio materno”. Il vuoto che lasciava era enorme.
Soggiornò una notte a Torino dove le avevano preparato una stanza con i dovuti onori, lei non si fece riconoscere e dormì sistemata alla meglio. A Borgaro Torinese, nel Castello dei Birago, ancora da adattare, nasceva una nuova provincia religiosa. Il suo compito di maestra delle novizie era tra i più delicati, vi mise tutto l’impegno possibile. Lavorava al loro fianco per dare il buon esempio, anche se ormai avanti negli anni non era un problema per lei inginocchiarsi pubblicamente davanti alla superiora. In tredici anni formò circa 500 novizie, con la corrispondenza le seguì anche negli incarichi successivi. Tra i suoi scritti leggiamo: ” Se la notte, il deserto e il silenzio sono sordi, Colui che ti ha creato ti ascolterà sempre” “Stammi allegra, santamente allegra! Canta, canta sempre! Non inquietarti: attendi al presente! “.
Grande devota dell’Eucaristia, un giorno, per il suo onomastico, chiese in regalo l’esposizione del Santissimo per tutta la giornata. Amava spesso ritirarsi in solaio per pregare da sola.
Il 10 dicembre 1916, mentre imperversava la Seconda Guerra Mondiale, si ammalò di polmonite. Nella malattia, che durò pochi giorni, rispettò l’ordine del silenzio datole dalla superiora per risparmiare le forze. Si spense alle 21,10 del 18 dicembre. Nella stanza si diffuse un profumo soave di rose e viole, il Signore ricompensava così colei che per tutta la vita l’aveva amato nel servizio del prossimo. Tante volte aveva ripetuto: “L’amore che si dona è l’unica cosa che rimane”.
Beatificata da Giovanni Paolo II il 25 aprile 2004, le sue spoglie mortali sono venerate nella chiesa dell’Istituto di Borgaro Torinese.
Non conoscevo la storia della Beata e mi sono incuriosito. Dovete correggere un errore nell’ultima parte: “Il 10 dicembre 1916…mentre imperversava la Seconda Guerra Mondiale”…. Se la data è corretta, imperversava la Prima guerra mondiale! saluti