Il 27 settembre è la festa di San Vincenzo de’ Paoli. Francese originario della Guascogna, sacerdote a 19 anni, fondò i Preti della Missione (Lazzaristi) e insieme a santa Luisa de Marillac, le Figlie della Carità nel 1633. Per lui la regina di Francia “inventò” il Ministero della Carità e lui organizzò l’aiuto ai poveri su scala nazionale
Il suo itinerario nella crescita della carità può essere scandito dai seguenti momenti: fino al 1608/11 è il periodo della fuga; segue il periodo della conversione (1611-17); il 1617 è l’anno chiave della scoperta della sua vocazione; gli anni che vanno dal 1617 al 1635 sono quelli del lavoro per la riforma della Chiesa di Francia; dopo il 1635 sono quelli del completamento dei suoi progetti.
Riprendendo Benedetto da Canfield, san Vincenzo colloca al vertice dell’esperienza cristiana l’adempimento della volontà divina. Ma la virtù che aveva maggiormente impressionato i contemporanei fu l’umiltà. Cristo ha amato l’umiltà, l’ha fatta sua. Chi si unisce a lui, diventa una vita sola e tocca pertanto questa profondità di umiltà che non è solo senso della precarietà della creatura di fronte al creatore ma partecipazione all’obbedienza di Cristo al Padre e al suo amore per i fratelli. Quindi non è più solo virtù negativa, ma distruzione dell’egoismo, linfa per tutte le virtù e fonte di ogni bene. Se volontà divina e umiltà costituiscono come i cunei dell’arco della spiritualità cristiana, la chiave di volta è la carità. Non c’è nel santo separazione fra amore di Dio e del prossimo. L’amore di Dio è una realtà dinamica. È volere che la sua volontà sia compiuta, è andare a Dio. Riprendendo san Bernardo e san Francesco di Sales, distingue fra amore effettivo e affettivo. L’amore che non si traduce in azione è più nocivo che utile:
“Amiamo Dio, fratelli, amiamo Dio, ma a spese delle nostre braccia, con il sudore della nostra fronte. Perché molto spesso tanti atti di amore di Dio, di compiacenza, di benevolenza e altri simili affetti e pratiche intime di un cuore tenero, sebbene buonissime e desiderabilissime, sono non di meno sospette, quando non giungono alla pratica dell’amore effettivo… [Molti] si lusingano con la loro immaginazione eccitata, si contentano delle soavi conversazioni che hanno con Dio nell’orazione, ne parlano anzi come angeli; ma usciti di lì, se si tratta di lavorare per Iddio, di soffrire, di mortificarsi, di istruire i poveri, di andare a cercare la pecorella smarrita, di essere lieti se sono privi di qualche cosa, di accettare le malattie o qualche altra disgrazia, ahimè, non c’è più nulla, il coraggio manca”.
Il suo ideale era quello di un contemplativo dell’azione: “Bisogna santificare queste occupazioni cercandovi Dio e compierle per trovarvelo, piuttosto che per vederle fatte”. Solo quando l’uomo è pieno di Dio, allora l’azione diventa efficace.
La sua spiritualità si fonda su due scoperte: Cristo e i poveri
“non è stato l’amore degli uomini che l’ha condotto alla santità, ma la santità che l’ha reso veramente ed efficacemente caritatevole”.
“Non mi basta amare Dio se il mio prossimo non lo ama”.
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