C’è bisogno di fraternità: l’altro non è una minaccia

da | Feb 8, 2019 | Opinioni a confronto, Per la meditazione | 0 commenti

Cresce in tutta la società un clima di degrado dei valori di umanità e di fraternità. Ne è convinto don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità, che interviene su un argomento di grande attualità in questi giorni, sull’ultimo numero del mensile “Vita Pastorale” (febbraio 2018). Pubblichiamo il testo integrale della sua riflessione

Alcuni recenti provvedimenti normativi, a cominciare dal cosiddetto “Decreto sicurezza”, poi convertito in legge dal Parlamento, sono stati ampiamente criticati da chi si schiera dalla parte dell’accoglienza, della solidarietà e del rispetto dei diritti e della dignità di ogni essere umano. Dichiaro subito la mia appartenenza a questo fronte. Tutte le volte che sono stato interpellato ho sempre detto “Prima le persone”. Non per coniare uno slogan da contrapporre ad altri, né come forma di galateo o di buonismo.

“Prima le persone” è un principio che, nella sua semplicità, traduce i princìpi della nostra Costituzione. Per fronteggiare esclusione, egoismi e respingimenti più che parlare di “disobbedienza civile”, occorrerebbe affermare “obbedienza” ai valori della Carta costituzionale.

Per me, come cristiano, quegli stessi valori hanno sorgente nel Vangelo. Si tratta, dunque, di fare una scelta. Io, e molti anche qui in Casa della carità, sentiamo questa scelta profondamente radicata nel Vangelo; un Vangelo che ci consegna una spiritualità che è profezia di umanità. Le persone non sono numeri, ma volti, storie, sguardi.

L’orizzonte è quello della fraternità.

La vita di una persona va al di là del luogo di nascita, ma ha dentro di sé una dimensione universalistica che ci fa essere tutti figli di Dio. E, per questo, fratelli. È questa spiritualità incarnata, che si fa storia, a renderci intransigenti difensori di diritti e dignità.

Non siamo ossessionati dal problema migratorio. Chiediamo quello che Papa Francesco chiama “cambiamento di mentalità”: “Occorre passare dal considerare l’altro come una minaccia alla nostra comodità allo stimarlo come qualcuno che, con la sua esperienza di vita e i suoi valori, può apportare molto e contribuire alla ricchezza della nostra società”. E di porre attenzione a coloro, per dirla ancora con le parole di Francesco: “Sono sfollati a causa di conflitti, disastri naturali e persecuzioni. Tutti costoro sperano che abbiamo il coraggio di abbattere il muro di quella complicità comoda e muta che aggrava la loro situazione di abbandono e che poniamo su di loro la nostra attenzione, la nostra compassione e la nostra dedizione”.

È un’esigenza di carità e di giustizia a muovere la nostra richiesta di governare un fenomeno complesso e sfaccettato, con misure che non calpestino il nostro senso di umanità (salvando, ad esempio, la vita di chi rischia di naufragare), né sviliscano le tante esperienze positive di accoglienza e integrazione che, in questi anni un po’ ovunque, abbiamo visto realizzarsi concretamente. Nella grande maggioranza dei casi chi opera nell’accoglienza, lavora bene e produce effetti positivi per tutta la comunità. E lo fa coltivando quel sentimento di mitezza che, a partire dal linguaggio, segna una differenza con chi s’esprime con brutalità e aggressività.

Parlare di “Fine della pacchia”, “Basta mangiatoia”, “Business delle cooperative”, offende chi si impegna a irrorare di fraternità, pace e coesione la nostra società. C’è una moltitudine di persone che si adopera per il prossimo, al di là del ritorno economico comunque indispensabile, laddove sono in campo professionalità e competenze. È un patrimonio che sta dentro anche la nostra Chiesa, perché le profonde motivazioni evangeliche che ci animano ci rendono impossibile lasciare una persona fuori dalla porta. I provvedimenti di legge approvati, invece, ci riconsegnano un compito ancora più difficile. Perché, ad esempio, sono stati creati grossi ostacoli ai percorsi di regolarizzazione. Non per questo, tuttavia, smetteremo di darci da fare. È un’esigenza che interpella la nostra fede.

 

La religiosità la si esprime con la fedeltà al Vangelo, non è addomesticata a un utilitarismo che rende la fede al servizio del proprio tornaconto. Il Vangelo inquieta, interroga. Ed è questo che ci spinge a fare.

La questione è anche, se non soprattutto, culturale. Questo clima di degrado dei valori di umanità e fraternità riguarda l’educazione delle nuove generazioni e il nostro essere cristiani. Una politica che si autoalimenta ricercando facile consenso, sfruttando paure e offrendo capri espiatori, si propaga anche nelle viscere della società, attraverso vecchi e nuovi mezzi di comunicazione.

Quando parliamo del fenomeno migratorio stiamo trasmettendo ai nostri ragazzi un’idea di società e degli ideali di convivenza civile. Non possiamo permetterci di rinnegare i valori della Costituzione, altrimenti avremo la certezza di seminare odio, conflitti e sopraffazioni nelle società di domani.

Ma anche come cristiani non possiamo non interrogarci. Il Vangelo non è un simbolo da agitare per segnare l’appartenenza a una fazione, ma va semplicemente letto. Il cristiano legge le Beatitudini e si lascia interpellare dal loro significato. Pertanto, “Prima le persone” è guardare il mondo dalla prospettiva, che Gesù ci ha insegnato, quella dei più poveri, degli umili e degli indifesi. È adoperarsi per affermare i loro diritti, la loro dignità e fraternità. Un impegno per la giustizia che Gesù ci ha consegnato.

FONTE SIR

don Virginio Colmegna – presidente della fondazione Casa della carità 

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