Memoria liturgica di SAN FRANCESCO RÉGIS CLET

da | Feb 18, 2012 | Chiesa, Formazione vincenziana, Notizie sulla Famiglia Vincenziana, Santi e Beati, Storia e cronaca | 0 commenti

Oggi 18 Febbbraio ricorre la memoria liturgica di SAN FRANCESCO RÉGIS CLET*, prete della CM, martire in Cina.

Sulla croce nei “celeste impero”

Passione per Cristo e per La Cina

(*Cfr. FRANCESCA ONNIS, San Francesco Regis Clet: Martire per la Cina e per la Chiesa. CLV – Edizioni Vincenziane, Roma, 2000; LUIGI MEZZADRI – LUIGI NUOVO, San Francesco Règis Clet: Lettere scelte. CLV – Edizioni Vincenziane, Roma, 2000.)

Vita

 

Nasce a Grénoble il 19 agosto 1748 da Cesario e Claudia Bourquy ed è battezzato il giorno seguente. La famiglia è nume- rosa – Francesco è il decimo figlio – e di discreta condizione sociale. Vi si respira una fervente e serena vita cristiana: la sorella Anna entra al Carmelo di Grénoble (anche la zia·era carmelitana), il fratello Francesco alla Certosa di La Valbonne, il cugino Gaspare tra gli Agostiniani.

Il 6 marzo 1769 entra nella Congregazione della Missione a Lione e il 18 marzo 1771 emette i voti perpetui. Studia con passione la filosofia e la teologia e acquista una notevole cultura, tanto da essere soprannominato “biblioteca vivente”. Il 17 marzo 1773 viene ordinato sacerdote dal vescovo ausiliare di Lione.

Inviato al Seminario di Annecy, vi insegna teologia morale e poi ne diviene superiore, stimato e apprezzato da tutti. Nel 1788 partecipa come delegato della Provincia di Lione all’Assemblea generale della Congregazione a Parigi. Finita l’Assemblea, il Superiore generale lo trattiene come Direttore del Seminario Interno (noviziato) a San Lazzaro. Qui si trova quando, il 13 luglio 1789, avviene l’assalto e saccheggio della Casa alla vigilia della Rivoluzione francese.

Nel 1791, a quasi quarantatre anni di età, il Clet chiede di partire, non per sfuggire dagli orrori della Rivoluzione e rifu-giarsi in posti tranquilli, ma per raggiungere la Cina, terra piena di incognite e di pericoli, e proibita ai missionari stra- nieri. Lascia la Francia il 10 aprile dal porto di Lorient e arriva il 15 ottobre nella colonia di Macao, porta aperta sull’impenetrabile Impero Cinese. Per alcuni mesi studia gli usi, la tradizione, i costumi e la difficile lingua cinese. Assume anche un nome cinese Lieou hu tzu, cioè Lieou il barbuto. Poi, in barca e soprattutto a piedi, affronta un viaggio di settecento – ottocento chilometri per raggiungere Nanc’hang, capitale della provincia Kiangsi, dove rimpiazza un gesuita francese che era stato arrestato e condotto in prigione a Pechino.

Il Clet gode di buona salute. Si sposta a piedi per visitare i piccoli gruppi di cristiani sparsi qua e là in vastissime regioni: predica, confessa, amministra i sacramenti, mirando alla qualità della vita cristiana, occupandosi in modo particolare dei poveri. Tra i compiti che è chiamato a svolgere c’è anche quello di superiore del distretto missionario dell’Hukuang: vi si dedica, cercando di creare comunione non solo tra i confratelli, ma anche con i missionari di altre comunità e interessandosi di ciascuno. La sua sofferenza è grande quando qualcuno di loro cade sotto i colpi della persecuzione o della malattia.

Le persecuzioni sono ricorrenti, soprattutto a partire dal decreto del 1794 dell’imperatore Qianlong che proibisce la religione cristiana e minaccia di pena di morte gli europei che la diffondono. Alle persecuzioni si aggiunge il terrore causato dalle bande ribelli dei Pé-lien – chiao ostili alla dinastia Ching, originaria della Manciuria. Vari missionari vengono traditi, imprigionati e uccisi. Anche il Clet, dopo aver corso varie volte seri rischi, nel 1819 è attivamente ricercato. Si nasconde in antri e caverne spostandosi rapidamente da un luogo all’altro, finché un cristiano apostata, a cui egli aveva rimproverato la condotta scandalosa, lo denuncia e lo consegna al mandarino, che lo fa incatenare e condurre a Nan – yang. Dopo mesi di carcere, condiviso con altri missionari e cristiani, avendo rifiutato di rinnegare la propria fede, è condannato a morte per strangolamento, con l’accusa di aver corrotto molta gente. All’alba del 18 febbraio 1820 è condotto al luogo dell’esecuzione, fuori delle mura della città di Wu – ch’ang, dove vengono giustiziati i malfattori. Issato sul patibolo a forma di croce e legato con corde, viene finito con tre violenti tratti di corda.

Anche nella morte il suo volto è sereno. I cristiani ne prelevano le spoglie e lo seppelliscono nel luogo chiamato “Montagna rossa”, dove rimane fino al 1858. In quell’anno i suoi resti, insieme a quelli del Perboyre, vengono esumati e traslati prima a Ningpo e poi a Parigi.

Leone XIII lo ha beatificato il 27 maggio 1900 insieme ad altri 76 martiri morti in Cina, Tonchino e Cocincina. Giovanni Paolo II lo ha proclamato Santo il l° ottobre 2000 con altri 119 testimoni della fede. La sua memoria si celebra il 18 febbraio.

 

Messaggio

 

Scrivendo di lui ad un missionario in Cina, P. Agostino Daudet lo tratteggiava così: “Egli raduna in sé tutto quello che si possa desiderare: pietà, scienza, salute, amabilità di carattere; per dirla con una parola: è un uomo completo”.

• Concepisce La missione in Cina come un “dono divino”.

Scrive alla sorella Maria Teresa appena prima di partire: ” .. .i miei voti alla fine sono stati esauditi, e io sono al massimo della gioia … Si è presentata un’occasione che io ho afferrato al volo …

Tu capisci che sento tanto intensamente il valore di questo dono divino da volerlo corrispondere pienamente: in una parola, io parto immediatamente per la Cina”.

 

• Si tratta di una missione che consiste nel “rinvigorire lo spirito religioso nei vecchi cristiani, abbandonati a loro stessi da molti anni, e convertire i non credenti”; un’attività che il Clet spera che “duri fino alla morte” e che svolge con grande serietà e senso di responsabilità. Lasciando la provincia del Kiangsi, scrive al fratello: “tra le altre cose, ho battezzato cento e più adulti assai ben istruiti. Avrei potuto battezzare un maggior Il u mero di persone che insistentemente mi richiedevano il sacramento ma non mi sembravano abbastanza pronti. Abbiamo notato infatti. che i catecumeni che vengono battezzati con leggerezza, apostatano facilmente e alla minima ombra di persecuzione affiggono il diavolo sulla porta”. Il suo desiderio è di creare dei cristiani “irreprensibili”.

 

• Nel lavoro missionario un’attenzione particolare è riservata ai poveri. Scrive: “I miei cristiani sono soprattutto poveri. La maggior parte delle loro abitazioni sono capanne aperte da tutte le parti. I due terzi almeno sono privi degli abiti necessari contro il freddo, assai rigido nelle nostre montagne; sono privi di coperte per i letti … Per mangiare, almeno per tre o quattro mesi all’anno, devono cercare nei prati delle piante selvatiche commestibili. Non abbiamo affatto dei cristiani ricchi i quali con il loro superfluo possano ovviare all’indigenza degli altri … “.

 

• Alla missione dedica tutto se stesso, per essa affronta ogni genere di sacrifici, non ultimo quello di una lingua che egli definisce “impenetrabile”. Di fronte alla difficoltà che essa rap- presenta, confessa: “lo sono arrivato in Cina troppo anziano per poter raggiungere una comprensione passabile; la conosco solamente un po’ … “. Ma ci sono anche le difficoltà legate al doversi ambientare in una terra con clima e abitudini diverse (vestiario e acconciatura, letto, cibo … ). Ci sono i disagi del continuo spostarsi da un luogo all’altro a piedi e in barca. Ci sono i ricorrenti pericoli rappresentati dalle persecuzioni, dalle scorrerie delle bande ribelli … C’è la solitudine!

 

• Di fronte alle difficoltà che sta attraversando la Francia e l’Europa dal punto di vista della fede, in seguito alla Rivolu-zione francese, il Clet scrive: “lo non oso rimpiangere l’occa-sione che avrei avuto, dimorando in Europa, di diventare martire; ritengo, infatti, che Dio mi ha fatto arrivare in Cina permettere la mia debolezza al riparo da una orribile caduta. Se Dio vuol fare di me un martire, dovrà fornirmi l’occasione”.

Questa occasione il Signore gliela fornì ed egli si dimostrò all’altezza della situazione. Dopo mesi di prigione, mentre si era in attesa del verdetto dell’imperatore, scriveva: “Dubito fortemente che l’imperatore acconsenta a lasciarmi vivere … Mi preparo a morire, dicendo spesso con S. Paolo: Mihi vivere Christus est et mori Lucrum”. Avviandosi al patibolo, raccomandò ai compagni di prigionia di rimanere sempre saldi nella fede: quella saldezza di cui egli stava dando splendida testimonianza.

 

Da : P. ALBERTO VERNASCHI C.M., Un patrimonio di famiglia. Santi e Beati della Famiglia Vincenziana, Cantagalli, Siena, 2007, pagg. 54 – 59.

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