Questa lettera accanto a cinque piante secche è stata trovata tempo fa all’interno di una casa piccola nella periferia di Verona. Di chi ci abitava dentro nessuna notizia; sembra un senegalese e da quanto risulta non sembra che sia mai tornato in patria, non l’hanno più visto al lavoro e non ha scritto nessuna altra lettera alla moglie.

«Ci ho messo cinque anni ad uscire dal nero di un lavoro nero e dal buio di una casa nera, da dividere con altri cinque amici più neri di me, cinque anni in cui non sono potuto tornare a casa, nemmeno quando sei stata così male da aver paura di perderti per sempre, cinque anni a nascondersi dietro tutti e dietro niente, cinque anni per trovare una casa con un po’ di finestre e un lavoro che non avesse un termine, cinque anni per un pezzo di carta con la mia foto e la mia nuova vita sopra, una vita con una scadenza, di anno in anno e di paura in paura.

Con il tempo, poi, ho iniziato a lottare per te, te che mi mancavi come la luce, così tanto che non esistevano più né giorni né notti, ma solo quei pochi, bellissimi istanti in cui potevo telefonarti e avrei voluto insieme alla mia voce arrivare vicino alle tue labbra, che mi parlavano piano e mi chiamavano amore.

Ho aspettato, mese dopo mese, di avere lo stipendio che mi avevano detto fosse necessario, litigando, gridando come un pazzo e rischiando di perdere il posto di la voro, pur di vederlo tutto intero nella mia busta paga.

Ho trovato, poi, una casa e l’ho sistemata, ordinata e pulita… pulita tutti i santi giorni, come se il giorno dopo fosse stato il giorno del tuo arrivo e ho piantato, annaffiato e cresciuto cinque piante diverse e strane, ma senza fiori, una per ogni anno in cui ho desiderato vederti, sole dopo sole e luna dopo luna.

Oggi, però, un’altra volta ancora mi hanno mandato via, senza darmi grandi spiegazioni, senza un sorriso, senza un saluto, di nuovo via, con la mia cartellina gialla e all’interno il mio amore nascosto dentro un timbro e carte, tante carte, vidimate, tradotte, legalizzate e consumate.

Ho pensato a quanto più di queste carte le nostre centinaia di lettere, che ogni giorno ci mandiamo per raccontarci la nostra vita vissuta a metà, potrebbero spiegare meglio il nostro amore e la nostra storia, lettere che vorrei si potessero incrociare nel ciclo dei loro rispettivi viaggi inversi, facendo abbracciare per un istante le virgole… almeno loro.

Eppure, prima di questo nuovo appuntamento, avevo buttato giù con delle spallate le porte, avevo alzato i soffitti, spingendo con le braccia, avevo staccato mattonelle con le unghie, distrutto muri con le mani, avevo costruito pareti, mattone dopo mattone, intorno a un piccolo terrazzo, stendendo il cemento con le dita; avevo scavato buche su ogni pavimento, in ogni angolo, sino a farmi uscire il sangue dal cuore, avevo strillato e pianto, così forte da rompere perfino i vetri. E alla fine la mia casa, ricoperta di tue foto e nostri sorrisi abbracciati, non è ancora idonea ad amarti.

Così dicono… che non sia idonea ad ospitare un’altra persona, ancora non abbastanza grande per poterti far venire qui e per farmi addormentare e svegliare accanto a te sempre e per sempre, non abbastanza grande per ricongiungermi con te: il mio amore dal quale in realtà non mi sono mai diviso veramente.

Mi viene da ridere, pensando ai loro ripetuti “no” rispetto al tempo passato insieme io e te, dividendo tutto, perfino l’aria da respirare e l’acqua da bere, dormendo in uno stesso letto e dentro uno stesso sogno.

Mi viene da piangere e mi viene voglia di morire, invece, pensando sempre ai loro ripetuti “no” per cinque metri quadrati in meno su un certificato triste, che rico pre di nero i colori della vita di noi due, che abbiamo imparato ad amarci e a vivere in una casa fatta di terra, grande come una marca da bollo su cui mettere un timbro e circondata da piante diverse e strane, ma piene di fiori».

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