Don Ciotti: la perdita di libertà è la peggiore umiliazione
13 giugno 2010 – Verona
Una Gran Guardia gremita di studenti per l’appuntamento con Don Ciotti sul tema “Non c’è carità senza giustizia” in occasione del 350° anniversario della morte di S. Vincenzo De Paoli e di Santa Luisa de Marillac.
Invitato dal Comune di Verona e dai gruppi di volontariato vincenziano, in collaborazione con l’Ufficio scolastico, Don Ciotti ha portato immediatamente toni e sviluppi del suo intervento in sintonia con gli ascoltatori più giovani, così che l’attenzione di tutti è rimasta tesissima.
Ha ricordato di essere stato lui stesso, bambino, migrante con la sua famiglia dal Veneto a Torino, e di aver abitato come prima casa la baracca del cantiere dove aveva trovato lavoro suo padre. Vestivano gli abiti regalati dalla S. Vincenzo, sempre perfettamente lavati e stirati da sua mamma, segno di dignità dei poveri.
Ogni giorno, andando a scuola, vedeva un barbone, solo, sulla stessa panchina, che leggeva assorto. Finché timidamente ha deciso di avvicinarlo per chiedergli se poteva portargli un caffè o un tè. Senza ottenere risposta. Ma nelle difficoltà bisogna essere testardi, non arrendersi. Perciò ha continuato per 12 giorni, finché l’altro ha accettato di entrare in relazione, per raccontargli la sua tragedia (medico di pronto soccorso, stimato da tutti, ma per un’unica volta ubriaco nella notte in cui, tra le persone ricoverate per incidenti, è morta la moglie di un suo amico – e per il senso di colpa ha mollato tutto) e gli ha indicato il bar di fronte, dove i ragazzi si abbrutivano con bombe di amfetamine e alcol. “Devi fare qualcosa per loro”, gli ha detto.
Cinque mesi dopo il barbone è morto. Ma tre anni dopo don Ciotti ha fondato il gruppo Abele.
“Carità e giustizia sono indivisibili”, dice don Ciotti, e cita Paolo VI: “Che non si offra come carità quel che è dovuto come giustizia” e “La giustizia è la prima via della carità”. Benedetto XVI ha scritto che la carità eccede la giustizia, ma non può mai essere senza giustizia”.
A queste va accostata una terza grande parola, la libertà. La perdita di libertà è la peggiore umiliazione. Il grande compito che ci assegna la vita è impegnare la nostra libertà per liberare le persone che ancora libere non sono. Che diritti e doveri non siano solo sulla carta, ma costituiscano l’impegno di tutti.
Ogni anno don Ciotti va in Puglia a celebrare la messa per i tre poliziotti pugliesi della scorta del giudice Falcone, e legge i nomi di tutte le vittime di mafia, perché tutte vanno ricordate, non solo le più notei. Il primo dei diritti è il diritto al nome.
Un’altra straordinaria lezione gli è venuta dal giudice Livatino, che prima di essere assassinato dalla mafia era andato dal suo procuratore capo a chiedere che venissero assegnati a lui certi fascicoli, per non mettere a rischio la vita di altri colleghi sposati e con figli. Nel diario mostrato a don Ciotti e aperto a caso c’era scritto “Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”.
La giustizia comincia dalla prossimità: dal faccia a faccia, dalla relazione, dall’accoglienza.
Tutti nascono liberi. Che cosa poi toglie la libertà? L’usura, il pizzo, il precariato, il lavoro nero, le mafie, la povertà. Oggi vediamo anche la povertà della speranza, come nel suicidio di 16 piccoli imprenditori negli ultimi mesi. E c’è un grande impoverimento culturale, una povertà di approfondimento. Dobbiamo avere voglia di conoscere per essere più responsabili, per essere responsabili del cambiamento che ha bisogno di ognuno di noi. Ma se ognuno ha i propri limiti e da solo può poco, “noi”, insieme, possiamo vincere.
“Diffidate – raccomanda don Ciotti – di chi solamente protesta e denuncia. È importante che ci assumiamo per primi la nostra quota di responsabilità; e che dopo siamo la spina nel fianco delle istituzioni perché facciano la loro parte, come noi facciamo la nostra”.
Racconta poi di quando si è trovato davanti alle 11 bare di immigrati annegati vicino a riva, alla terza di quelle bare, con dentro un ragazzino, ed era circondato da musulmani che gli chiedevano di dire anche lui qualcosa; e non sapendo che dire si è ricordato una frase di don Tonino Bello: “Non mi interessa sapere chi sia Dio, ma da che parte sta”. Dio sta dalla parte di chi opera per carità e giustizia, indivisibili.
Al termine dell’incontro Don Ciotti vuole lasciare ai ragazzi tre fondamentali indicazioni di impegno per: liberare i poveri, rimuovendo gli ostacoli che impediscono di uscire dalla loro condizione; integrare gli esclusi, costruendo le condizioni per il rispetto dei diritti di tutti; socializzare gli inclusi, i preoccupati per il proprio io, rendendo accoglienti le nostre città.
Il carburante è la speranza, che oggi si chiama “fare”, a cominciare dalle piccole cose, la bussola è la giustizia, i diritti e i doveri indicano la strada.
L’unico mercato sempre in attivo è la mafia: mercato della droga, della prostituzione, dei rifiuti, anche da noi. “Per questo – spiega ancora – abbiamo fondato Libera, che conta ormai centinaia di associazioni aderenti. Ma per l’omicidio di don Peppino Diana siamo noi sotto processo. Perché la camorra e un giornale di Caserta hanno scritto che era stato ucciso per questioni di donne e noi abbiamo detto che quel giornale è spazzatura. E in seguito il direttore è stato arrestato perché a libro paga della camorra. Le mafie sono incompatibili con la parola di Dio”.
Don Ciotti ricorda infine Roberto Antiochia, il poliziotto che ha voluto interrompere le ferie per difendere il commissario Cassarà, ed è stato falciato da una mitraglietta assieme a lui. E sua mamma Saveria, che ha voluto testimoniare continuando l’impegno del figlio.
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