La terza parte dell’articolo esplora come la spiritualità vincenziana possa adattarsi al mondo moderno, caratterizzato da secolarizzazione, allontanamento dalla Chiesa e ingiustizia strutturale. In un mondo alienato dalla fede, la missione vincenziana si concentra sull’evangelizzazione dei poveri e degli emarginati. Nonostante l’autonomia del mondo secolare, la spiritualità vincenziana rimane rilevante per il suo carattere secolare e missionario. L’articolo sottolinea che l’ingiustizia strutturale, che colpisce molteplici aspetti della vita sociale, è un’opportunità per i seguaci di San Vincenzo di vivere appieno il suo carisma. Infine, evidenzia la necessità di un rinnovamento dello spirito vincenziano, sottolineando il contatto diretto con i poveri come unica via di accesso a Dio attraverso Cristo.
Passato e futuro dello spirito vincenziano
3. Il mondo di oggi
Non entreremo qui nella moda post-conciliare di tentare un’altra brillante descrizione delle tendenze e delle modalità del mondo moderno. Ci limitiamo a tre caratteristiche di questo mondo che hanno un’attinenza diretta con altre tre caratteristiche della spiritualità vincenziana.
Il mondo moderno nel suo complesso è un mondo lontano dalla Chiesa. Questo è vero innanzitutto per le immense moltitudini (più di tre miliardi e mezzo di esseri umani) di altre religioni, ma è vero anche per un’altissima percentuale di battezzati e di cattolici. È vero che anche in questo mondo lontano ci sono, grazie a Dio, abbondanti segni dei semina Verbi (ad esempio, l’opera per i poveri o la lotta per i diritti umani da parte di persone e organizzazioni non ufficialmente o non considerate cristiane), “semi della Parola” diffusi nel mondo sia dall’influsso storico e millenario del Vangelo e dell’azione educativa della Chiesa, sia da quella che i teologi chiamavano “rivelazione naturale”.
Questo allontanamento generale non deve scoraggiare le istituzioni vincenziane, perché le pone in mezzo a un mondo in stato di missione che risponde pienamente alla loro vocazione missionaria originaria. Per quanto riguarda la Congregazione della Missione, questa vocazione missionaria è visibile nel suo stesso titolo; e per quanto riguarda le Figlie della Carità, in ciò che affermano le loro costituzioni: “La Società è missionaria per natura” (2. 10).
Ora, missionario nel suo senso più forte e generale è ogni credente che si preoccupa di attirare a Cristo coloro che non credono (esplicitamente) in lui. Poiché il mondo cristiano e non cristiano è pieno di questi non credenti, non c’è pericolo che le istituzioni di San Vincenzo rimangano senza lavoro nel prossimo futuro.
Se la missione, secondo Paolo VI, esprime la vera natura della Chiesa (E. N. 14), ne consegue che la spiritualità missionaria vincenziana è al centro di ciò che la Chiesa è e deve essere. Ci sono anche altre dimensioni nella vita e nell’essere della Chiesa che sono molto importanti, dimensioni che si riferiscono alla sua vita, per così dire, interna: il culto, i sacramenti, la cura pastorale del popolo di Dio credente e praticante. Le istituzioni della San Vincenzo, naturalmente, vivono pienamente queste dimensioni, perché anch’esse sono credenti e praticanti. Ma non sono state create per mantenere queste dimensioni. Il loro compito è lavorare per e tra coloro che non credono e/o non praticano. Il loro compito è quello di essere missionari.
La seconda caratteristica del mondo moderno che interessa nella prospettiva in cui ci muoviamo è l’autonomia, la laicità o il secolarismo del mondo moderno. Uno qualsiasi dei tre termini è sufficiente per definire ciò che intendiamo a questo punto. L’uso di tutti e tre insieme ci eviterà una descrizione più dettagliata. Metteremo in evidenza solo l’aspetto che ci interessa di più in questo articolo.
Dal VI secolo circa fino al XVIII secolo, la Chiesa è riuscita in larga misura a ispirare in uno spirito religioso (anche se non sempre in uno spirito specificamente cristiano) quasi tutte le creazioni della società europea: forme di convivenza sociale e politica, schemi culturali generali, filosofia, storia, arte e persino scienza ed economia. Ma oggi non è più così. Non c’è un solo aspetto della cultura moderna che non si consideri autonomo e che non rifiuti in linea di principio qualsiasi tipo di tutela o guida da parte delle istituzioni religiose. Con la fine di quello che un tempo era il monopolio e poi il predominio del clero su quasi tutte le forme culturali della società, tutto ciò che nel mondo di oggi non appartiene specificamente alla vita interna delle chiese difende vigorosamente la sua natura laica e secolare.
Né questo secondo aspetto del mondo moderno deve scoraggiare l’anima vincenziana, perché anche in questo caso si tratta di un mondo da missionare. Anche se in entrambi i casi gli aggettivi “laico” e “secolare” non sono presi in senso univoco, vale la pena ricordare che la spiritualità di San Vincenzo incarnata nelle sue istituzioni è anche una spiritualità di carattere laico e secolare.
Anche se oggi la teologia della vita religiosa si sforza di orientarla verso il mondo, non era affatto così ai tempi di San Vincenzo, né in quelli precedenti o successivi fino a ieri. Per secoli, la specificità dell’idea religiosa è stata quella di concentrarsi su Dio e di prendere le distanze dal mondo. Questo valeva non solo per gli ordini di clausura, ma anche per quelli che consentivano un’attività apostolica, come ad esempio la Compagnia di Gesù, che ha ispirato quasi tutti quelli che l’hanno seguita. Ricordiamo il motto che la definisce: “Tutto per la maggior gloria di Dio”. Lo stesso vale per i primi ordini nati con un’attività apostolica, gli ordini mendicanti. Il fondatore di uno di essi, San Domenico di Guzman, definisce la sua spiritualità come “parlare con Dio o di Dio” (Costituzioni primitive, 22ª Distinzione, capitolo 31). Per quanto riguarda San Francesco d’Assisi, è stato spesso osservato che, sebbene abbia manifestato una straordinaria attenzione per i più poveri, la sua spiritualità non è incentrata su questo fatto, ma sull’imitazione più letterale possibile della povertà di Cristo: “La regola e la vita dei Frati Minori è questa: osservare il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza proprietà e in castità” (Regola II, cap. 1).
Confrontate gli slogan dei gesuiti e dei domenicani con ciò che uno slogan come “evangelizzare i poveri” o “la carità di Cristo ci spinge” suggerisce di un orientamento “laico”. Cosa ci spinge a fare questa carità? A rivolgerci ai (poveri del) mondo. Come per i francescani, così anche per i seguaci di San Vincenzo “Gesù Cristo è la Regola (della Missione)” (XI, 429; Cost. C. M. 5), e così anche per i suoi seguaci (Cost. H. C. 1. 5), ma entrambi sanno bene che il Cristo che serve loro da regola non è semplicemente il Cristo povero, ma il Cristo che viene nel mondo per evangelizzare i poveri. Tutte le istituzioni vincenziane sono state create per il “saeculum”, in qualsiasi senso si prenda questa parola (mondo, secolo, storia…), per muoversi in esso e portarlo a Dio per Cristo.
È quindi facile comprendere l’insistenza di San Vincenzo sul carattere spiccatamente laico (anche se non diocesano, ma missionario) anche dei membri clericali della sua Congregazione. La laicità dei membri di tutte le istituzioni vincenziane e la laicità di quasi tutte (esclusi i chierici della Congregazione della Missione) le rendono “strumenti” molto appropriati per muoversi con agilità in un mondo che si considera laico e secolare (come già notato, anche se questi termini non sono usati in senso univoco, non sono usati in senso del tutto equivoco).
Ma c’è ancora di più, ed è bene ricordarlo affinché i membri chierici della Congregazione della Missione non cadano mai nella tentazione di credere che siano loro a incarnare veramente lo spirito vincenziano, come se gli altri (fratelli coadiutori, Figlie della Carità, Volontari, Conferenze Ozanam, giovani…) fossero vincenziani solo in modo secondario e partecipativo. È bene ricordare che in una storia di oltre tre secoli, i chierici sono stati una piccola minoranza tra coloro che, uomini o donne, si considerano anche seguaci di San Vincenzo. Ciò significa che lo spirito vincenziano è stato vissuto per lo più in quel periodo (e anche oggi) da cristiani e laici e laiche.
Non si tratta di porsi la vexata quaestio di chi l’abbia vissuta meglio, il clero o i laici. Solo Dio lo sa e ce lo dirà a tempo debito. Ma si può affermare che una moltitudine di membri non ecclesiastici ha vissuto lo spirito vincenziano per tre secoli con tutta la sua pienezza e fino all’ultima e suprema prova di amore per Cristo e per i poveri, che consiste nel dare la vita per Lui e per loro.
Ma lo stile prevalentemente laico-secolare del mondo di oggi (e, a quanto pare, del mondo che verrà ancora per un bel po’) sembra di per sé suggerire una questione interessante per il futuro dello spirito vincenziano. Già oggi questo spirito vive incarnato in un gran numero (più di un milione, come abbiamo visto sopra) di cui solo circa 2.800 sono sacerdoti ordinati della Congregazione della Missione. La domanda è la seguente: questo fatto non sembra indicare che la condizione non clericale, lungi dall’essere un impedimento a vivere lo spirito vincenziano nella sua pienezza, si presta più facilmente a farlo? Abbiamo già detto che la condizione clericale non deve necessariamente essere un ostacolo a vivere la dimensione missionaria del sacerdozio. La prova si trova in San Vincenzo stesso e in molti sacerdoti della Congregazione della Missione da lui ispirati. Né lo status clericale e nemmeno quello episcopale. Ricordiamo San Giustino de Jacobis e, tra noi, Padre Codina.
Lo status clericale non dovrebbe essere un ostacolo, ma ammettiamo francamente che spesso lo è stato e lo è ancora oggi, quando vediamo tanti Padri le cui ore ed energie sono spese per lo più non nel lavoro di missione (anche se si definiscono missionari: Cost. C. M., n. 51, 1), ma nel lavoro di consolidamento interno della Chiesa, soprattutto nelle parrocchie. La situazione attuale potrebbe non essere facilmente sanabile a breve termine. Ma quello che i chierici della Congregazione della Missione potrebbero almeno fare, con una saggia previsione del futuro (dato che non è impossibile, ma molto probabile, che il numero dei chierici vincenziani si riduca ancora di più), e perché le loro Costituzioni glielo chiedono espressamente (nn. 1, 14, 17, e soprattutto Est. 7), è quella di dedicare almeno una parte delle proprie energie ad animare e ispirare coloro che non sono chierici, nella speranza che realizzino in campo vincenziano ciò a cui essi stessi non possono dedicarsi interamente a causa della loro condizione clericale.
La terza caratteristica di questo mondo moderno, che è di grande interesse per la spiritualità vincenziana, è il fatto della sua ingiustizia strutturale. Per essere precisi, va notato che l’ingiustizia strutturale non è esclusiva del mondo moderno, poiché si è verificata praticamente in tutte le forme di organizzazione sociale conosciute. La novità sta nel fatto che l’ingiustizia dell’organizzazione sociale non è più attribuita a Dio (come avveniva in passato fino a non molto tempo fa), ma che l’ingiustizia è conosciuta e riconosciuta come prodotta dall’uomo. In secondo luogo, la consapevolezza dell’ingiustizia è praticamente universale. Essa abbraccia sia coloro che sono vittime dell’ingiustizia (e che erano soliti sottomettersi facilmente ad essa come segno della – presunta – volontà di Dio) sia coloro che ne traggono vantaggio (che erano soliti trovare ogni sorta di ragioni, non escluse quelle religiose, per giustificare la loro situazione di privilegio).
L’ingiustizia strutturale nel mondo moderno non è solo un’ingiustizia di differenze economiche, ma si manifesta in tutti gli ambiti della vita sociale: l’accesso all’assistenza sanitaria, alla cultura, ai mezzi di comunicazione sociale, a molte forme di sport e di svago e persino, anche se è doloroso ammetterlo, ai beni della Chiesa. Oggi, come ai tempi di San Vincenzo, i poveri sono meno serviti dalle forze della Chiesa rispetto agli strati non poveri della società. Il quadro dell’ingiustizia sociale è certamente deprimente, ma non deve scoraggiare l’anima vincenziana, perché è il luogo naturale della sua attività e della sua sollecitudine. Non c’è quindi da aspettarsi che le istituzioni vincenziane rimangano senza lavoro anche in questo campo. Se per un’ipotesi impossibile (In 12, 8) l’ingiustizia che produce tanta povertà dovesse cessare e si instaurasse una giustizia universale, le istituzioni vincenziane sarebbero giunte alla fine di una storia iniziata nel 1617.
Riassumiamo questa sezione che cerca di evidenziare le caratteristiche del mondo moderno che più direttamente incidono su qualsiasi tentativo di vivere la spiritualità vincenziana oggi, e di cui essa dovrebbe tener conto per essere oggi una spiritualità, un’esperienza di fede, viva e, come spesso si dice oggi, “significativa”:
- Il mondo di oggi è un mondo lontano dalla visione cristiana della vita e della storia. Questo aspetto deve mettere in gioco più chiaramente che nel passato immediato la dimensione missionaria della spiritualità vincenziana.
- Il mondo di oggi è un mondo secolarizzato che sarà molto difficile evangelizzare da posizioni clericali che, per loro natura, tendono a concentrarsi sulla vita interna della Chiesa (già da Origene – III secolo – il termine “clero” è esplicitamente applicato a coloro che dedicano la loro vita al servizio della Chiesa stessa, in esplicita contrapposizione al resto del popolo di Dio, i laici). Per evangelizzare tale mondo, la spiritualità vincenziana dovrà privilegiare gli aspetti laici e secolari che appartengono alla sua stessa origine.
- Il mondo di oggi è un mondo radicalmente ingiusto che segrega la povertà per se stessa, in dimensioni ancora più massicce che in passato. Questo significa che la spiritualità vincenziana, incentrata sull’esperienza spirituale di Cristo-evangelizzatore dei poveri, ha davanti agli occhi un panorama potenziale in cui può esprimersi con altrettanta intensità, se non di più, rispetto ai tempi del fondatore.
4. Il futuro dello spirito vincenziano
Per realizzare un simile progetto in futuro, lo spirito vincenziano dovrà cominciare da dove ha cominciato il fondatore: da una vera conversione, da un vero volgersi verso i poveri. Non basterà un semplice rivolgersi a Cristo, a un Cristo indifferenziato, per così dire. Questo era già stato fatto da Berulle e, prima e dopo di lui, da molte altre forme di spiritualità, che certamente tenevano conto dei poveri, ma in modo più o meno marginale e secondario. Per lo spirito vincenziano, il Cristo che evangelizza i poveri non è affatto secondario, ma totalmente centrale.
Quindi questo cammino spirituale (accesso a Dio attraverso Cristo), il cammino vincenziano, deve iniziare anche oggi dove ha iniziato Cristo e dove ha iniziato il suo discepolo Vincenzo de’ Paoli. Deve iniziare nel mondo dei poveri, nel contatto fisico e ravvicinato con loro. Le istituzioni vincenziane e i loro membri non possono diventare agenti burocratici che cercano di migliorare le condizioni di vita dei diseredati come in una sorta di ministero dell’assistenza sociale. Per ognuno di loro, la dedizione ai poveri è l’unico modo per avere accesso a Dio attraverso Cristo, il rapporto più diretto possibile con i poveri concreti è il primo passo che apre la propria strada a Dio.
Questo primo passo non può essere evitato. Ogni anima vincenziana che, per qualsiasi motivo (studi, malattia, posizione nell’istituto, età…) viene di fatto allontanata dal contatto diretto con i poveri, dovrebbe soffrire di una sorta di tensione che la mette a disagio per l’allontanamento fisico dal mondo che le è proprio e che è necessario per alimentare la sua vita spirituale.
D’altra parte, né le Costituzioni della Congregazione della Missione, né quelle delle Figlie della Carità menzionano espressamente l’idea di come rapportare alcune espressioni di pietà personale o comunitaria (espressioni da sempre considerate elementi indispensabili per qualsiasi spiritualità) a quella che è l’anima della loro stessa spiritualità, l’evangelizzazione dei poveri, 45 §1/Const. H. C., 2. 12), la penitenza /45 §2/2. 13, E. 8), la preghiera liturgica 45 §3/2. 12), gli esercizi spirituali (47 §12. 14, S. 10), la devozione alla Vergine Maria /49/1. 12, 2. 11, 2. 16, S. 7). Così, per quanto riguarda questi aspetti necessari a ogni spiritualità, le stesse Costituzioni, che definiscono la spiritualità vincenziana per oggi e per il futuro, lasciano il seguace di San Vincenzo senza sapere come integrare questi aspetti con ciò che costituisce l’anima della sua vita spirituale. Le Costituzioni non gli dicono, ad esempio, cosa c’entri la sua Eucaristia quotidiana o la sua devozione alla Madonna con la sua dedizione ai poveri. C’è quindi il pericolo di una certa schizofrenia spirituale che non sa bene come coniugare, in una necessaria unità di vita, ciò che è centrale per la propria spiritualità con gli elementi fondamentali che dovrebbero alimentarla. Questo pericolo è, tra l’altro, molto reale. Ad esempio, quale percentuale della nostra devozione alla Medaglia Miracolosa, quante novene o tridui, ad esempio, rimangono una mera devozione entusiastica alla Medaglia Miracolosa e non hanno alcun legame con l’evangelizzazione dei poveri?
L’abbondante e profonda ricerca teologico-esegetica degli ultimi cinquant’anni è riuscita a mettere in luce l’importanza, fondamentale per la fede cristiana, di quello che viene chiamato il Gesù storico, la “biografia” storica di Gesù che inizia a Betlemme e finisce alla croce e al sepolcro. È questo, infatti, il Cristo che ha fatto da modello definitivo per l’esperienza spirituale di San Vincenzo, tanto che la sua personale disposizione spirituale si troverebbe oggi a suo agio nella visione teologica prevalente del pensiero teologico odierno.
Ma questo lavoro non è ancora stato fatto (anche se in parte lo si sta facendo) nel campo della mariologia. Le poche, ma significative, idee di San Vincenzo sulla Vergine Maria rimandano sempre a una Maria “storica”, e non a una Vergine presunta e glorificata, aspetto che ha predominato nella visione teologica e nella pietà popolare fino ai giorni nostri. Ma la Maria che può veramente servire da modello e ispirazione per l’anima vincenziana è soprattutto, anche in questo caso, la Maria “storica” del “fiat”, della visita a Elisabetta, della nascita e dell’infanzia del Signore, delle nozze di Cana, del Calvario, della Pentecoste. E soprattutto la Maria che nel Magnificat annuncia con gioia e ringraziamento, e con quale immenso vigore, la piena redenzione dei poveri e la totale rovina di coloro che si credono ricchi e potenti.
Tutto ciò che abbiamo detto indica e suggerisce, da un lato, la necessità di tornare con decisione al nucleo della visione teologica del fondatore e, dall’altro, alle formulazioni teologiche di oggi che meglio rispecchierebbero la sua sensibilità spirituale adattata ai tempi attuali. Se le stesse istituzioni vincenziane non sono in grado di produrre, o di fatto non producono, tali formulazioni, sarebbe saggio per loro prenderle in prestito da teologi competenti che le producono. Ci sono visioni teologiche nella Chiesa di oggi che sembrano formulare in modo “moderno” alcuni degli aspetti fondamentali di quella che fu a suo tempo l’esperienza spirituale di San Vincenzo de’ Paoli. Per esempio, la teologia della liberazione.
L’esperienza spirituale di San Vincenzo è, come hanno notato tutti gli esperti che lo conoscono bene, chiaramente cristocentrica. Questo è sicuramente un dato fondamentale. Così come l’esperienza spirituale di Santa Luisa. Questa affermazione sembrerebbe ovvia, poiché è facile ammettere che Santa Luisa è stata la persona che meglio ha assimilato lo spirito vincenziano fin dall’inizio e prima di chiunque altro. Non bisogna quindi prestare troppa attenzione a uno dei migliori conoscitori di entrambi i fondatori, Jean Calvet, quando afferma che la visione spirituale di Santa Luisa è piuttosto pneumocentrica (centrata sullo Spirito Santo).
Ma l’affermazione di Calvet ci ricorda che nel descrivere la spiritualità vincenziana non possiamo dimenticare qualcosa di fondamentale che spesso viene trascurato. In effetti, i riferimenti espliciti di san Vincenzo alla persona dello Spirito Santo e alla sua influenza sulla storia sono piuttosto rari. Non è così per Santa Luisa, che offre una ricchezza di spunti che si riferiscono espressamente a questo aspetto. Tuttavia, una vera spiritualità cristiana non può prescindere da un aspetto che appare fondamentale nell’insegnamento di Cristo stesso, che attribuisce allo Spirito Santo tutto ciò che il cristiano può fare dall’Ascensione in poi.
Non si tratta di un’affermazione astrattamente dogmatica e priva di un reale rapporto con la storia, ma della chiave e dell’anima della storia. Sulla solida base delle parole del Signore, la Chiesa e i suoi membri devono adattare gli insegnamenti di Cristo a ogni momento storico mutevole sotto l’azione dello Spirito Santo. Questo non è affatto limitato all’azione magisteriale propria della gerarchia ecclesiastica. Ad esempio, saper discernere “il grido dei poveri” nelle mutevoli circostanze storiche come segno della volontà di Dio può essere fatto solo dal cristiano (e dal vincenziano) sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, senza dover sempre aspettare che sia la Chiesa gerarchica a definirlo: “Lo Spirito Santo illumina la nostra mente perché possiamo conoscere più profondamente le necessità del mondo” (C. M. Cost., 43); “attenzione alle necessità dei poveri” (C. M. Cost., 43); “attenzione alle persone, alla loro vita, alle realtà socio-culturali dei popoli e attenzione allo Spirito (Santo) di Dio che opera nel mondo” (Cost. H. C., 2.8).
Tutto ciò non dovrebbe porre problemi all’anima vincenziana nel mondo moderno, perché i due fondatori sono anche modelli di coraggioso adattamento dell’antico spirito di carità alle circostanze storiche del loro tempo, senza certo anticipare la Provvidenza (l’azione storica dello Spirito Santo), ma anche rispondendo con coraggio e fantasia ai suoi passi mutevoli.
Un coraggio e un’immaginazione simili sono necessari per un argomento, ad esempio, come la revisione delle Opere. Quando ci si appella alla gloriosa storia passata come criterio per mantenere una casa o un’opera che non soddisfa più il suo scopo, ci si appella a un criterio che i fondatori non hanno mai preso in considerazione, né lo fanno le costituzioni.
Non possiamo ricadere oggi nella trappola del conservatorismo, né in una sorta di rispetto ingenuo per la storia passata. Dalla vita “storica” di Gesù e dall’esperienza spirituale storica dei fondatori dobbiamo estrarre, anche oggi, gli elementi fondanti senza i quali la nostra stessa esperienza spirituale cesserebbe di essere vincenziana. Ma saperli applicare alle mutate circostanze storiche e alle mutate forme di povertà spetta a noi, sempre sotto l’ispirazione dello Spirito Santo.
5. Conclusione
Tutte le istituzioni fondate da San Vincenzo o ispirate alla sua esperienza spirituale cercano oggi di riformulare e far rivivere, adattandola ai tempi, l’esperienza originaria.
Perché dovrebbe essere necessaria una riformulazione? Non dovremmo semplicemente rileggere i tredici volumi di lettere, conferenze e documenti in cui è stata registrata l’esperienza originale?
Basterebbe, infatti, rileggerlo per poterlo rivivere fedelmente se i tempi in cui visse San Vincenzo fossero i nostri tempi, se gli uomini e le donne di oggi fossero come quelli del suo tempo, se la Chiesa di oggi fosse come quella del suo tempo; soprattutto, se i poveri di oggi fossero come i poveri del suo tempo.
Ma nessuna delle quattro ipotesi regge. È stato proprio il complesso di cambiamenti sociali iniziati in forma vulcanica con la potente irruzione della Rivoluzione Francese a far sì che né gli uomini né le donne, né le istituzioni politiche o economiche, né la Chiesa stessa, né, naturalmente, i poveri, siano oggi come ai tempi di San Vincenzo. Quindi, chiunque cerchi di far rivivere lo spirito vincenziano originale oggi non dovrebbe solo rileggere la lettera per cercare di farlo rivivere. Dovrebbe cercare di far rivivere lo spirito, cioè cercare di estrarre dall’esperienza originale gli elementi fondamentali che, dopo tutti i cambiamenti e le rivoluzioni avvenuti nella società e nella Chiesa, possono continuare ad essere significativi affinché la nostra esperienza spirituale-cristiana possa continuare ad essere legittimamente considerata vincenziana.
Jaime Corera C. M.
Fonte: Reavivemos el Espíritu Vicenciano: Semana de Estudios Vicencianos, XXII [Riaccendere lo spirito vincenziano: Settimana di studi vincenziani, XXII] (CEME, Salamanca, 1995).
Domande per la riflessione personale o il dialogo di gruppo:
- Come possiamo rendere la spiritualità vincenziana significativa e trasformativa in un mondo secolare e senza fede?
- Quale ruolo possiamo svolgere come missionari vincenziani nell’evangelizzazione di coloro che non conoscono o non praticano la fede?
- Come possiamo fare in modo che le nostre azioni missionarie non si limitino alla carità, ma affrontino le cause profonde della povertà?
- Quanto è importante il contatto diretto con i poveri per la vita spirituale vincenziana e come possiamo mantenerlo nelle nostre comunità?
- Come possiamo essere strumenti di giustizia in un mondo segnato dalla disuguaglianza, rendendo la nostra fede e le nostre opere rispondenti ai bisogni dei più vulnerabili?
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