Furono anni segnati da perfidie e da accuse reciproche fra uomini accomunati dalla vita religiosa e dalla medesima vocazione, ovvero convertire al Vangelo il popolo cinese, quelli in cui — tra il 1700 e il 1750 — si sviluppò la missione di Teodorico Pedrini in Cina.
Lazzarista, così erano chiamati i preti della Congregazione della Missione, fondata nel 1625 da san Vincenzo de’ Paoli, Pedrini era un uomo raffinato e colto, come testimoniano le sue lettere, le quali mostrano la complessità di una realtà difficile e assai variegata, dunque ben diversa da tanta storiografia che tende a distinguere con eccessiva semplicità fra gesuiti, da una parte, e altre istituzioni religiose, dall’altra.
Quelle epistole, più di cento, sono state raccolte nel libro Teodorico Pedrini, Son mandato à Cina, à Cina vado. Lettere dalla Missione 1702-1744, (Macerata, Edizioni Quodlibet, 2018, pagine 632, euro 45,90), a cura di Fabio G. Galeffi e Gabriele Tarsetti, con la prefazione di Francesco D’Arelli. Le lettere giungono principalmente da due archivi, entrambi situati a Roma: l’archivio storico del collegio leoniano e l’archivio generale dell’Ordine dei frati minori.
I curatori rivolgono anzitutto l’attenzione alla vicenda biografica di Pedrini, che compì i suoi studi a Fermo, sua città natale, sino al conseguimento della laurea in Utroque iure nel giugno del 1692. A Roma, dove era giunto più che ventenne, potè approfondire gli studi teologici e filosofici: al contempo ebbe modo di frequentare i salotti più vivaci dell’epoca, animati da artisti ed eruditi, nonché da numerosi porporati, tutti protagonisti, o perché destinatari o perché solamente citati, del suo corposo epistolario.
Se l’adesione di Teodorico nel 1696 all’Accademia dell’Arcadia segnò il riconoscimento, da parte della Roma colta e dotta, del suo valore come uomo di lettere, (si distinse in particolare come musicista) l’entrata nella Congregazione della Missione, o più comunemente dei Lazzaristi, con la professione dei voti definitivi nel febbraio del 1700, gli valse la conquista delle missioni in Oriente e in particolare di quella in Cina, il luogo più agognato fra tutte le terre da evangelizzare, sottolinea D’Arelli nella prefazione.
E all’inizio del 1702, precisamente il 12 gennaio, lasciò Roma alla volta della Cina. Fu un viaggio lunghissimo. Percorse la via franchigena, fino a Siena e a Livorno. Raggiunse Tolone per nave e poi arrivò a Parigi. Benché selezionato per far parte della prima legazione papale del patriarca Carlo Tommaso Maillard de Torunon, non riuscì a incontrarlo. Dopo un anno e mezzo di permanenza nella capitale francese, il 26 dicembre 1703 partì insieme con altri missionari da Saint-Malo su una nave francese diretta nell’America del sud arrivando in Perù, dove fu bloccato per più di un anno. Giunse quindi in Messico, toccando poi le Isole Marianne e successivamente le Isole Filippine, dove rimase per due anni. Dopo essersi riunito nel porto di Mariveles con alcuni missionari di Propaganda fide, giunse con loro a Macao nel gennaio 1710, appena in tempo per assistere alla morte di Tournon (8 giugno 1710). Da lì arrivò finalmente a Pechino: era il febbraio del 1711. Il viaggio era durato nove anni. Fu subito ammesso alla corte imperiale in qualità di musicista, insieme al missionario Matteo Ripa, valente pittore.
Alla figura di Pedrini — come ricorda D’Arelli nella prefazione — si lega la questione dei riti. Egli fu il primo missionario occidentale a parlare all’imperatore Kangxi del contenuto dei decreti papali in materia di riti cinesi. Le sue relazioni riferiscono a Roma la reazione di pacifica tolleranza da parte dell’imperatore verso le decisioni papali: questo fatto gli procurò l’ostilità dei missionari gesuiti che erano contrari a tali decreti. Pedrini fu tra i pochi missionari che, in quel delicato contesto, rimase fedele assertore delle posizioni della Santa Sede, la quale ripetutamente aveva proibito — con le bolle Ex illa die del 1715 ed Ex quo singulari del 1742 — la commistione delle liturgie cristiane con le pratiche confuciane: e la sua fermezza gli procurò le bastonate e la prigione. Nel 1723 aveva acquistato a Pechino una residenza sul viale Xizhimén — che conduce alla città proibita all’antico palazzo d’estate, residenza della corte imperiale — aprendovi al culto la chiesa di Xitang, dedicata alla Madonna dei Sette Dolori, la prima chiesa non gesuitica a Pechino. La chiesa fu distrutta due volte (nel 1811 e nel 1900) e due volte ricostruita (nel 1867 e nel 1912). Ancora oggi un’iscrizione, nella parete interna dell’edificio, ricorda ai visitatori il nome del fondatore.
Va pure sottolineato che oltre ad aver svolto un ruolo importante nel contesto della missione cattolica del primo Settecento, Pedrini rappresentò un figura di rilievo nella storia dei rapporti cultuali tra l’Europa e la Cina, in quanto per molti anni fu il principale musicista occidentale alla corte cinese. Insegnò infatti musica europea ai figli dell’imperatore e di numerosi mandarini; costruì e restaurò organi e clavicembali, ma soprattutto fu coautore del primo trattato di musica occidentale pubblicato in Cina, il Lulu Zhenghyi-Xubian (1714). È stato quindi autore delle fino ad oggi uniche musiche occidentale conservate negli archivi storici cinesi: le Dodici Sonate per violino col Basso del Nepridi, il cui manoscritto è attualmente presente nel patrimonio della National Library of China di Pechino.
di Gabriele Nicolò – Osservatore Romano
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