Venerdì della settimana santa, di p. Giorgio Bontempi c.m.

da | Apr 15, 2014 | La Parola per la Chiesa | 0 commenti

Offro queste note per favorire una partecipazione attiva, attenta e proficua alla celebrazione della Passione del Signore

Formazione ed evoluzione

È verosimile che per la Chiesa antica anche il Venerdì Santo abbia costituito un giorno di celebrazione liturgica. Per conoscere una sua celebrazione più ampia dobbiamo attendere i dettagli riferiti dalla testimonianza di Egeria (cfr. Giovedì della settimana santa) del IV secolo, dettagli che avranno un influsso determinante sulla liturgia romana. Fino allora l’elemento centrale della celebrazione del Venerdì Santo era costituito dalla celebrazione della Parola. L’ordinamento di tale liturgia offertoci da Giustino nella sua I Apoologia è stato ripreso dalle diverse liturgie, modificandone questo o quell’aspetto secondario. Abbiamo qui il nucleo primitivo della nostra liturgia della parola, ricalcata, nelle sue linee fondamentali, sulla celebrazione ebraica del mattino del sabato.

NB! È fondamentale ricordare che l’opera di Giustino è del 150 d.C. e la riforma liturgica promulgata da Concilio Vaticano II, ne ha riproposto gli schemi e la teologia, per cui la messa che celebriamo oggi è LA MESSA ANTICA!!! Mentre quella secondo il rito di Pio V risale al XII secolo, quando usavano il messale secondo il rito della Curia romana!!!!!!!! Come al solito tradizionalisti ed integralisti sono ignoranti in storia.

Continua sul Venerdì santo.

La prima parte della celebrazione del mattino del Venerdì santo ha conservato tale struttura tranne alcune varianti: letture, canti, omelia, orazioni solenni, una delle forme della cosiddetta preghiera universale odierna.
Se vogliamo esaminare più da vicino questa liturgia della Parola durante il Venerdì santo a Roma, scopriamo alcune delle varianti cui abbiamo appena accennato. Sembra che l’antica struttura contemplasse una prostrazione del vescovo che nel frattempo pregava in silenzio, una prima lettura seguita da un Tractus (= un versetto di un salmo), una seconda lettura, il canto della Passione, infine le Orazioni solenni (la nostra Preghiera universale nella sua forma più ampia). Per questo certi Ordines (= rituali) ci offrono l’esempio di un’analoga struttura. Altrove tuttavia ci si comporta in modo diverso, ossia la celebrazione segue un altro schema: dopo la prostrazione, colui che presiede dice un’orazione, quindi si ha la prima lettura seguita da un’altra orazione.
Esiste anche un’altra struttura: dopo la prostrazione, colui che presiede recita un’orazione e si dà quindi inizio alle letture senza altre orazioni. È la struttura che è stata scelta dalla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II, che è tutt’ora in uso. Le orazioni solenni così come ci vengono presentate dal Sacramentario Gelesiano (= con la parola Sacramentario s’intendono i Messali dei primi secoli) sono state conservate fino alla recente riforma che ne ha introdotte di nuove e trasformate altre.
Ma, come si è detto, la liturgia romana subirà l’influsso del racconto fatto da Egeria nel suo pellegrinaggio in terra santa del IV secolo. Nel suo Diario di viaggio, essa descrive ciò che accadde il Venerdì Santo a Gerusalemme dove si venera la croce di Cristo.

(…) Si pone una cattedra per il vescovo dietro la Croce, dove egli si trova in quel momento. Il vescovo siede sulla cattedra, davanti a lui si mette un tavolo coperto da un telo di lino, i diaconi sono in piedi attorno al tavolo: viene portata una cassetta d’argento dorato in cui c’è il santo legno della Croce, la si apre e la si espone. Si mette sul tavolo il legno della Croce e l’iscrizione. Dopo averli posti sul tavolo, il vescovo stando seduto appoggia le mani alle estremità del santo legno e i diaconi, in piedi tutt’intorno, sorvegliano. Il motivo della sorveglianza è questo: è usanza che ad uno ad uno tutti quanti si avvicinino,
sia i fedeli, sia i catecumeni, e chinatisi sul tavolo bacino il santo legno e poi passino avanti: ora, si narra che, non so quando, un tale con un morso abbia portato via un frammento del santo legno: per questo motivo i diaconi che stanno all’intorno, fanno attenzione che qualcuno, venendo vicino, non osi ripetere quel gesto. Così tutti quanti sfilano lì dinnanzi ad uno ad uno: si chinano, toccano prima con la fronte poi con gli occhi la croce e l’iscrizione, poi baciano la Croce e passano oltre, ma nessuno la tocca con le mani.

A Roma, dove si conserva una parte del legno della croce, prese piede l’usanza di una venerazione simile a quella descritta da Egeria. Solo con il Rituale (= Ordo) XXIII (700 – 750 d.C.), però abbiamo un’ampia descrizione, dovuta a un pellegrino, del rito della venerazione della croce nella Città Eterna. Benché la liturgia ispanica (= spagnola), nel VII secolo, attesti una venerazione della croce ereditata senza meno da Gerusalemme, Roma non dipende da essa nel suo rituale. La descrizione che ne dà l’Ordo XIII è invece assai simile a quella narrataci da Egeria. L’influsso orientale è evidente: ad esempio, è il papa stesso che porta il turibolo fumante durante la processione, usanza codesta del tutto sconosciuta a Roma. Nel momento in cui il rito della venerazione della croce entra nella liturgia romana, sono orientali i papi che occupano la cattedra di Pietro: da Giovanni V (685 – 686) a Zaccaria (741 – 752). A Roma, inoltre, la venerazione della croce precede la liturgia della parola, proprio come viene riferito da Egeria.
I libri liturgici non segnalano alcun canto di accompagnamento per la venerazione della croce, consoni anche in questo con il diario di Egeria. A partire dai secoli VIII e IX, il corteo che si forma per la circostanza è accompagnato da un canto, quello dell’antifona Ecce lignum crucis con il salmo 118. Altre antifone verranno poi aggiunte alla salmodia, ad esempio Salva nos Christe e, in particolare, Crucem tuam adoramus, antifona di origiane bizantina.

In questi libri liturgici non si fa parola dell’uso né di velare né di svelare la croce. L’origine e il significato di tale uso sono oscuri, anche se è facile intuire la drammatizzazione che comporta lo scoprimento del legno sacro. Questa consuetudine appare soltanto con il Pontificale Romano del XII secolo (= Rituale delle celebrazioni del Papa), quando appunto si fa strada una certa drammatizzazione. Più tardi, durante la venerazione della croce, verrà aggiunto il Trisagio – derivato dalla liturgia orientale attraverso la Gallia –  (= tre volte santo: la triplice acclamazione Dio santo, santo e forte, santo e immortale, abbi pietà di noi), il canto degli improperi, usanza che troviamo già alla fine del IX secolo.
Abbiamo spiegato perché non ci si comunicava il Venerdì Santo. La comunione, in tal giorno, non compare infatti a Roma prima del VII secolo. Ne fa fede la celebre lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, Decenzio. Nell’Ordo XXIII (700 – 750), troviamo una interessante rubrica: né il papa né i vescovi comunicano il Venerdì Santo. Chi intende comunicare deve farlo consumando ciò che è stato conservato dell’eucaristia celebrata il giorno precedente, cioè il Giovedì Santo. Chi non vuol comunicare in tal modo può recarsi nelle altre chiese di Roma. Siamo dunque in presenza di una duplice consuetudine. Ma nella liturgia romana di allora ci si comunicava sotto le due specie. I documenti più antichi menzionano in termini espliciti la riserva del pane e del vino consacrati. Alcuni documenti posteriori, che paiono di origine franca (=francese), ricordano la riserva del solo pane consacrato, ma parlano nel contempo di commistione silenziosa del pane consacrato con il vino consacrato. Questa mescolanza del pane e del vino si basava su una convinzione teologica. Non era facile infatti conservare fino al Venerdì Santo del vino consacrato il Giovedì. Ora, per la comunione ordinaria dei fedeli, si usava versare del sangue santo in un calice già pieno di vino non consacrato. Verso l’800 nacque l’idea che, mescolando pane consacrato e vino non consacrato, quest’ultimo venisse consacrato per contatto. Alamario  vescovo di Metz († 850) dà testimonianza di quest’uso.
Il Pontificale Romano – germanico del X secolo menziona ancora chiaramente questa credenza nella consacrazione del vino per contatto. Si porta dunque all’altare il pane consacrato la vigilia e un calice colmo di vino. Vengono deposti sulla mensa ed incensati. Poi colui che presiede canta il Padre nostro. L’ostia viene allora divisa in tre parti  e al terza è deposta nel calice, in silenzio. Il Pontificale Romano del XII secolo ricorda anch’esso che in tal modo il vino non consacrato viene santificato dall’immissione del Corpo del Signore.
All’inizio del XIII secolo, diversi teologi, che fanno capo a Pietro Cantore († 1197), che era canonico e teologo di Notre Dame a Parigi, confutano la teoria della consacrazione per contatto. Ma questa credenza era durata per quattro secoli. L’Ordo papale del XIII secolo segnala a quell’epoca che solo il pontefice comunica il Venerdì Santo. Fino alla riforma del 1955 solo chi presiede protrà comunicare, ma il rito di immistione verrà sempre praticato seza per questo credere alla consacrazione del vino.

La celebrazione del Venerdì Santo oggi

Sopprimendo l’immistione, la riforma del 1955 tuttavia introdotto la comunione dei fedeli. Il rito ambrosiano, quello praticato nella diocesi di Milano, ha conservato l’uso antico che non comporta la comunione, ma soltanto la liturgia della parola e l’adorazione della Croce.
Per il resto il rito romano aveva conservato la maggior parte degli usi precedenti. Con il Vaticano II questa liturgia ha subìto importanti modifiche.
La celebrazione era già fissata al pomeriggio dall’Ordo precedente. Questa disposizione fu conservata. Si sarebbe potuto decidere di celebrare la liturgia della Parola al mattino e di fissare al pomeriggio l’adorazione della croce e la comunione. Ma motivi pastorali più che comprensibili non consentirono questa innovazione; è difficile impegnare le persone a riunirsi due volte lo stesso giorno per due celebrazioni. Anzi, proprio per motivi pastorali le celebrazioni del Triduo pasquale si eseguono ormai dopo la cena, per permettere a coloro che lavorano fino a sera di poter prendervi parte.
Si era anche pensato di sopprimere la comunione dei fedeli. E se ne capisce il motivo. Restituire il senso del digiuno anche delle specie consacrate fino all’eucaristia della risurrezione avrebbe potuto essere proficuo per ridare ai fedeli una mentalità più precisa circa l’attesa della Pasqua. Ma la comunione dei fedeli il Venerdì Santo era stata appena istituita e gli spiriti sarebbero stati poco preparati ad una simile riforma. Si preferì quindi mantenere ciò che era stabilito nel 1955.
Diamo ora alcuni dettagli. La riforma del Vaticano II ha introdotto all’inizio della celebrazione un’orazione a scelta; l’orazione tradizionale è infatti di difficile comprensione e ha posto alcuni problemi di ordine letterario.
Una modifica importante è stata quella della scelta delle letture. Se il vangelo proclamato è rimasto – secondo una lunga tradizione – quello della Passione secondo Giovanni, le prime due letture sono state modificate. Invece della lettura del profeta Osea (6,1 – 6), è stato scelto Isaia (52,13 – 53,12). Ciò suppone una trasformazione rilevante nella visione teologica della celebrazione della Passione. Questo non significa che la scelta precedente non fosse consona alla liturgia del giorno: la profezia di Osea annunciava la nostra purificazione e la risurrezione il terzo giorno. Ciò voleva dire dare al Venerdì Santo la sua esatta fisionomia: la celebrazione della morte trionfante di Cristo. Con la profezia di Isaia si è preferito offrire l’immagine del Cristo sofferente, condotto al macello come pecora muta, carico di tutti i nostri peccati, causa della nostra giustificazione. Anche la seconda lettura, come si è detto è stata variata, Invece della lettura dell’Esodo (12, 1 – 11), viene proclamato il brano della lettera agli Ebrei (4,14 – 16); 5,7 – 9). Anche in questo caso si ha un mutamento di prospettiva. La lettura dell’Esodo narrava l’immolazione dell’agnello e situava così il sacrificio di Cristo nel prolungamento del sacrificio dell’Antico Testamento. La lettura della lettera agli Ebrei ci mostra Cristo obbediente che diventa causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono. Alla fine della proclamazione della parola, si tiene una breve omelia, secondo l’opportunità.

Pure le rubriche (= le indicazioni in rosso scritte sul Messale) sono state modificate. Fin dall’inizio della celebrazione chi presiede indossa la casula o il piviale di colore rosso, segno della regalità di Cristo vincitore della morte, e per le Orazioni solenni (= Preghiera universale), egli può stare alla sede, oppure all’ambone, oppure anche all’altare. Dopo l’invito alla preghiera si fa una pausa di silenzio che può essere annunciata dal tradizionale Flectamus genua (= inginocchiamoci), fermo restando che le Conferenze episcopali sono autorizzate ad introdurre delle acclamazioni dei fedeli. Tra le diverse intenzioni, il vescovo diocesano può, per una grave necessità pubblica, inserirne una particolare. Peraltro, tra le orazioni proposte dal messale, al presidente è consentito scegliere quelle che a suo giudizio sembrano le più adatte, rispettando tuttavia l’ordine con cui sono state elencate.

Per la seconda parte della celebrazione è stata introdotta la venerazione della croce accanto all’antica usanza di mostrare ai fedeli la croce, svelandola processionalmente al canto, tre volte ripetuto, dell’Ecce lignum crucis.

Una seconda forma è quella della processione svelata, procedente dal fondo della chiesa con tre soste. Ad ognuna di queste si canta l’antifona suddetta. È lo stesso rito che si adotta durante la veglia pasquale al momento del Lumen Christi con il cero pasquale.

Il rituale della venerazione della croce è stato semplificato: non ci si toglie più le scarpe e si fa una sola genuflessione.

Per quanto concerne i riti di comunione, il SS.mo sacramento viene portato sulla mensa con solennità, poi si procede con la recita del Padre nostro e tutto procede secondo il rituale della Messa.
La celebrazione si conclude con un’orazione sopra il popolo. Senza la consueta benedizione.

Buona celebrazione.

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