Beato GHEBRE MICHAEL, prete della missione

da | Ago 30, 2011 | Formazione vincenziana, Notizie sulla Famiglia Vincenziana, Santi e Beati | 0 commenti

Ricorre oggi 30 agosto la memoria liturgica del Beato Ghebre Michael, prete della missione e martire. Di seguito un breve riassunto della sua vita.

Nel ricco paese del Goggiam, in Etiopia poco al di sotto del lago Tsana e sulla riva destra dell ‘Abbay sorge il villaggio di Dibo. Ivi nacque verso l’anno 1791 il celebre monaco e dottore Ghebre-Michael. I1 nome che gli fu imposto vuol dire servo o devoto di San Michele: e fu un presagio, del suo avvenire, poiché come l’Arcangelo Michele propugnò contro Lucifero i diritti di Dio, Verità eterna, così il suo devoto servo doveva essere il campione della verità, col cercarla indefessamente ed una volta trovata insegnarla e difenderla, fino a dar la vita per essa.

I genitori, che lo amavano di grande amore, posero molta cura in allevarlo e nel fargli impartire tutta quell’istruzione che era possibile nel suo luogo natio. Ghebre-Michael fu allevato e crebbe nell’errore della sua patria, che nega a Cristo la doppia natura di Uomo-Dio.

Ancor fanciullo, una grave malattia lo privò dell’occhio sinistro, ciò però non gl’impedì di attendere allo studio: anzi vi si applicò in modo che, giovandosi del fervido ingegno e della volontà ferrea avuti da natura, ne profittò moltissimo: e l’ammirazione che ben presto destò la sua dottrina si rivela dal nome singolare di uomo dai quattr’occhi, con cui io appellavano i suoi compaesani.

Ghebre-Michael studiò nella vicina città di Mertolé Mariàm, alla maniera degli altri studenti abissini. Questi quasi figli e servitori dei loro maestri, fan parte della famiglia di essi, ne abitano la casa, vi prestano servizio e vivono una vita di stento e di privazioni. Con pochi libri, o anche senza, imparano tutto a memoria.

Ghebre-Michael apprese la grammatica, la poesia, il canto, il computo ecclesiastico e civile, il Salterio con la sua interpretazione, tutta la Bibbia, la teologia, l’astronomia.

Contava venticinque anni quando ebbe finiti i suoi studi, e conservava fresco e intatto il fiore della purezza, perché l’educazione severa ed il grande amore della scienza col continuo lavoro, avevano tenuto lontano da lui l’ozio, il vizio e la pestifera corruzione, che spesso attacca la gioventù. Il duplice amore della scienza e della virtù, che tutto empiva il petto del giovane, l’indusse a cercar nella professione monastica un ideale più perfetto di vita, quale poteva dare un paese come l’Abissinia, dove lo scisma e l’eresia tutto aveva contaminato ed avvilito. Fece dunque domanda di entrare, e fu ammesso nel monastero di Mertolé-Mariàm.

L’errore principale degli ortodossi abissini riguarda il mistero dell’ Incarnazione e la Persona stessa dell’Uomo-Dio. Confondendo i due concetti di natura e di persona, non sanno formarsi un’ idea dell’unione ipostatica, come non seppero formarsela né Nestorio che in Nostro Signore ammise due persone, poiché vi sono due nature, né Eutiche che al contrario sostenne esservi in Nostro Signore una sola natura, poiché v’è una sola persona.

Gli Abissini dichiarano eretici l’uno e l’altro, ma poi sono sospinti or verso il primo, or verso il secondo, poiché abbracciano lo stesso loro principio.

A 25 anni, abbracciò la professione monastica, affinché nella pratica della castità potesse più liberamente applicarsi alla ricerca della verità rivelata. Studiò i codici antichi conservati nei monasteri, ascoltò i più celebri dottori delle scuole, senza adottare definitivamente l’insegnamento di alcuna.

Sulla barca che li conduceva in Egitto, Ghebre Mìchael e due altri dottori, suoi compagni, i più ardenti per queste dispute, vollero avere un saggio della scienza di San Giustino De Jacobis che li accompagnava, e gli chiesero «se in Gesù Cristo, dopo l’unione, restano due nature». Dietro la risposta affermativa del missionario cattolico, obiettarono: ” I nostri padri dicono che la natura non può stare senza la persona, né la persona senza la natura; per conseguenza, voi siete costretto ad ammettere due persone in Gesù Cristo». Come era naturale, Giustino replicò: «Se tale è il vostro insegnamento, come mai nella Trinità vi possono essere tre persone in una sola natura ?». I dottori, non sapendo che rispondere, si allontanarono assai malcontenti. Quattro anni erano trascorsi dal dialogo avuto sulla barca col Prefetto Apostolico; Ghebre-Michael era andato con lui a Roma e a Gerusalemme e poi di nuovo in Abissinia; gli esempi d’una virtù che mai si smentiva provocarono la sua ammirazione ed aumentarono la sua stima per il missionario cattolico; attirato dalla grazia, volle avere con lui alcune conversazioni sulla Cristologia; e così dissipati gli ultimi dubbi, abiurò finalmente nelle mani di Giustino gli errori del suo paese.

Ben presto fu associato ai lavori apostolici del maestro, che l’incaricò di far la scuola agli alunni del suo Seminario, e ne fece il suo consigliere nella composizione d’un catechismo per il popolo, e nella traduzione in lingua abissina di un’opera destinata alla formazione teologica del clero indigeno e il suo principale aiuto nella predicazione ai fedeli e nella confutazione degli eretici.

Questa collaborazione però doveva essere interrotta dalla ‘prigionia di 70 giorni che gli fece subire lo pseudo vescovo eretico Salàma. Reso finalmente alla libertà, egli corse a gettarsi di nuovo nelle braccia di Giustino, che lo giudicò degno di ricevere l’unzione sacerdotale.

I tanti vincoli che l’avvincevano a San Giustino non bastavano al suo cuore, ed egli domandò ed ottenne di essere accettato tra i figli spirituali di San Vincenzo. Ma non poté cominciare il suo noviziato formale, perché gettato di nuovo nei ferri da Salama, e poi da lui consegnato nelle mani dell’imperatore, dopo tredici mesi d’indicibili tormenti moriva nei ferri per non aver voluto abbracciare un simbolo ereticale.

Così, il 28 agosto 1855, Ghebre-Michael, nell’età di anni 64, metteva col suo martirio il suggello alla testimonianza da lui data alla fede colla predicazione della verità rivelata e colla santità della vita. Questa magnifica testimonianza del sangue è stata solennemente riconosciuta dalla Chiesa, il 3 ottobre 1926 con la solenne beatificazione in S. Pietro.

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