L’Italia si piazza settima nella classifica dei paesi più condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Mantiene quindi la stessa posizione del 2008, seppure con qualche condanna in meno (61 contro 72), ma sempre il triplo di Francia e Germania. Se cambia poco quanto a collocazione nella hit degli Stati meno rispettosi della Convenzione, una novità si registra sulle violazioni contestate.
Il 2008 è stato l’anno nero per la lunghezza delle procedure, ora tocca al rispetto della vita privata e familiare: sulla violazione della corrispondenza sono arrivate ben 27 condanne. Sul dato hanno inciso sia la vecchia legge fallimentare sia il regime imposto dal carcere duro. Tra i 47 membri del Consiglio d’Europa l’Italia mantiene anche il quinto posto per i procedimenti pendenti, malgrado l’aumento del numero dei casi che passano dai 4.191 del 31 dicembre 2008 ai 7.158 del 2009. Appena meglio di Russia, Turchia, Ucraina e Romania, un poker che da solo rappresenta il 56% delle richieste pendenti.
I dati, aggiornati al 31 dicembre 2009, sono stati snocciolati dal presidente della Cedu Jean Paul Costa lo scorso 28 gennaio. I giudici di Strasburgo devono ora confrontarsi con un numero di casi pendenti che è passato dai 97.300 del 1° gennaio 2009 ai 119.300 di fine anno. Quanto alle sentenze significative che la Corte ha emesso nei confronti dell’Italia, dalla condanna per la disparità di trattamento operata in base alla patologia contratta nel riconoscere gli indennizzi alle persone contagiate in seguito a una trasfusione, alla sentenza con la quale i giudici hanno chiesto all’Italia di togliere il crocefisso dalle scuole pubbliche. Contro questa decisione, 27 paesi hanno sottoscritto un documento che bolla come “politico” il comportamento dei giudici. Argomento sostenuto anche durante la conferenza stampa del presidente Costa, che ha dato la sua lettura sul verdetto.
“Non posso commentare una sentenza non ancora definitiva – ha detto Jean Paul Costa – quello che posso dire è che i giudici hanno fatto una scelta giuridica su un problema politico. Da qualche anno ci troviamo a trattare sempre più casi che riguardano la religione, dalla questione dei minareti, non ancora arrivata a Strasburgo, al burka, la religione è sempre più importante per gli stati. Non è la Corte che diventa politica – ha concluso Costa – ma è la religione che lo diventa”.
L’aumento dei conflitti religiosi è comunque solo uno degli argomenti della mole di domande introdotte davanti alla Corte che rischia di seppellire i giudici sotto una montagna di arretrato. In una situazione critica, il presidente ha individuato tre motivi di ottimismo: l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che consente all’Europa di aderire, alla Convenzione, la ratifica da parte della Duma del Protocollo 14 votata all’unanimità dal parlamento russo che permetterà alla Corte una razionalizzazione delle procedure e, per finire, la conferenza di Interlaken che si terrà in Svizzera a metà febbraio. Un incontro in cui gli stati saranno chiamati ad adeguare la normativa interna per il “rimpatrio” dei casi.
Fonte: www.ristrettiorizzonti.it da Il Sole 24 Ore
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