Capodanno in carcere

da | Gen 9, 2010 | Carcere | 0 commenti

Così la notte di San Silvestro nel carcere di Padova, così la speranza di un nuovo anno da scontare con un po’ più di spazio fisico, di umanità, di voglia di esistere e di cambiare la propria vita…

Giustizia: il Capodanno con Pannella apre i cancelli della galera

di Ornella Favero (Direttore di Ristretti Orizzonti)


Di mattine e pomeriggi in carcere ne ho passati tanti, da più di 12 anni faccio un giornale con una redazione di detenuti e volontari, dunque la galera la conosco e la frequento. Ma una notte dentro non l’avevo ancora passata, e tanto meno “LA NOTTE” per eccellenza, quella di Capodanno. E invece l’idea è venuta a uno che la fantasia, viva e pulsante, per trovare forme nuove per parlare di un tema poco appetibile come la galera ce l’ha ancora

Tutto è cominciato il giorno prima, mercoledì, con una telefonata di Rita Bernardini, parlamentare radicale: Pannella vuole passare il Capodanno nella Casa di Reclusione di Padova. Non ho pensato neanche per un attimo a uno scherzo, conosco Pannella quel che basta per sapere che è uno che le cose le dice e le fa, quello che non pensavo è che nel giro di poche ore arrivassero le autorizzazioni necessarie dal Ministero, e anche la disponibilità del direttore, Salvatore Pirruccio, a sacrificare la sua festa in famiglia per Pannella e soprattutto per tenere viva l’attenzione sul disastro delle carceri, sovraffollate come non lo sono state mai.

“Cenone” alle cinque del pomeriggio e a letto alle nove

Arriviamo davanti al carcere alla sera del 31, alle sette, Marco Pannella, Rita Bernardini, io, Michele Bortoluzzi di Radicali Italiani, il consigliere regionale del Partito Democratico Giovanni Gallo e un tecnico di Radio radicale. Ci accolgono il direttore e il commissario della Polizia Penitenziaria, poi cominciamo questo strano tour partendo da una piccola sezione, il Polo universitario. Con tutta la mia esperienza di carcere ancora immaginavo che almeno l’ultimo dell’anno le persone detenute, anche se davvero hanno poco da festeggiare, passassero la serata con i blindati delle celle aperte, cenando magari a un’ora “decente”.

E invece no, arriviamo che stanno già per essere rinchiusi a doppia mandata, il “cenone” l’hanno fatto alle cinque del pomeriggio, come in ospedale. Il nostro arrivo scombussola tutti i piani, o meglio uno solo, quello di cacciarsi a letto e dimenticare che in ogni altra parte del mondo si fa festa. Ci sediamo a tavola, mentre a occuparsi della cucina è Gianluca, il dottore, lo chiamano tutti così per rispetto alla professione che faceva prima di diventare un detenuto. Questa sera tutti tirano fuori il cibo che doveva servire al pranzo del primo dell’anno, e con i loro fornelletti da campeggio ci improvvisano un cenone “classico”, cotechino e lenticchie. E anche un dolce sontuoso, così nemmeno noi ospiti dobbiamo rinunciare ai festeggiamenti, tranne Marco Pannella, che non tocca cibo perché è ancora una volta e pervicacemente in sciopero della fame.

L’emozione di Sandro, trenta Capodanni di galera e il primo Capodanno quasi umano

Mi colpisce l’emozione di Sandro, uno dei detenuti della mia redazione: è in carcere da trent’anni, e non gli era mai capitato di stare alzato così tanto, né di vedere intorno a sé per l’ultimo dell’anno persone “normali”, la “società civile” che entra in galera anche in una notte così particolare. Io non so se siamo persone normali, né se esiste più la “società civile”, so che mi fa quasi star male che una cosa piccola come due ore di una sera “speciale” come Capodanno passate respirando un po’ di libertà possano emozionare e commuovere dei “delinquenti”. Sì perché nessuno di loro si vuol far passare per quello che non è, i reati li hanno commessi e nessuno li minimizza, ma nel nostro Paese una volta, quando hanno scritto la Costituzione, dicevano che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, quindi si ricordavano bene di avere a che fare con delle persone, oggi la tendenza è a dimenticarsene. Ecco perché l’idea di Marco Pannella e Rita Bernardini di essere qui con loro questa sera è un modo straordinario per riportare al centro dell’attenzione non il “problema carcere”, ma gli esseri umani che ci vivono accatastati dentro.

Il profumo del pecorino albanese

Elton e Gentjan, albanesi, mettono in tavola del pecorino, ha un odore aspro di quelli che ormai è difficile sentire, l’ha portato in questi giorni la mamma di Elton, arrivata dall’Albania con grandi difficoltà per incontrare il figlio, in carcere da molti anni. Ricordo un articolo che Elton aveva scritto per il nostro giornale, quando raccontava che da ormai più di dieci anni ogni Capodanno telefona a casa perché la sua famiglia possa così rinnovare un rito che lo riporta per un po’ a festeggiare con loro: “I miei genitori mettono sempre il vivavoce in modo che la mia presenza diventi più forte e mi raccontano i piatti preparati. Poi mi commentano in diretta ciò che fa mio padre, che ha precedentemente aggiunto il mio posto alla tavola apparecchiata e ha riempito anche il mio bicchiere di vino”. Penso che adesso a Elton restano “solo” due anni da scontare, si è laureato con centodieci e lode, fra poco farà la laurea specialistica, eppure quando uscirà lo aspetta solo l’espulsione. Agli stranieri non viene data nessuna seconda possibilità, oggi tanti di loro non riescono a vedere più un futuro da nessuna parte, non qui perché ormai siamo diventati intransigenti con loro, proprio noi italiani con il nostro scarso senso della legalità, e neppure al loro Paese, perché dopo quindici, vent’anni in Italia lì sarebbero più stranieri che qui.

Inizia un “porta a porta” da galera

Marco Pannella questa sera con i detenuti parla anche di informazione e racconta le difficoltà che hanno sempre avuto i radicali per Andare in televisione a trasmissioni come Porta a Porta o Anno Zero. Ripenso alle sue parole quando verso le undici iniziamo con il direttore il giro delle sezioni: Pannella ottiene di far aprire tutti i blindati e comincia, con Rita Bernardini, un paziente “Porta a porta” di quelli veri, una notte di autentico ascolto di sofferenze piccole e grandi, solitudine, angoscia. Quasi nessuno sta festeggiando, solo in lontananza si sente un botto provocato in una sezione da qualcuno che ha deciso di festeggiare comunque e con qualunque mezzo, e ha trovato a disposizione solo la bomboletta di un fornelletto da campeggio.

Non sono ancora le undici dell’ultima notte dell’anno e quasi tutti stanno dormendo, vedo affacciarsi tra le sbarre dei cancelli facce che non riconosco subito, poi mi chiamano e mi salutano sbalorditi e capisco che, per la prima volta, incontro i detenuti che vedo ogni giorno in redazione nell’intimità della vita quotidiana. L’unico che trovo sveglio è Maurizio: seduto sul letto, con un computer davanti e le cuffie in testa, sta sbobinando materiali per i prossimi numeri del nostro giornale, e mi sento quasi fiera che ci siano persone che hanno deciso di usare il loro tempo per impegnarsi in qualcosa di utile, per informare gli altri, per “scommettere” su una possibilità di cambiamento che passa per la cultura. Sbircio dentro le celle, e mi viene in mente che il Regolamento penitenziario ora le vorrebbe chiamare “camere di pernottamento”. C’è da star male: in poco più di nove metri quadri ci sono una branda singola e un “castello”, mi fermo alla cella di Marino, Davor e Alberto e vedo accatastate tre vite intere, tre ergastolani che in quello spazio devono tenere insieme tutti i pezzi di esistenze rovinate. Mi offrono una camomilla, la accetto volentieri, mi prende l’ansia solo a provare a immaginare cosa significhi vivere così per anni.

Cosa vuol dire saper ascoltare la sofferenza degli altri

Stiamo in galera fino alle quattro del mattino, attraversiamo tutto il carcere, e nelle prime sezioni che visitiamo, il quinto piano e l’Alta Sicurezza, riusciamo davvero a fermarci a ogni cancello. Marco Pannella tra i detenuti è un mito, tutti gli vogliono stringere la mano, vogliono ricordare insieme qualche sua battaglia civile, qualche marcia per l’indulto o protesta per le condizioni disumane delle carceri. Rita Bernardini ascolta con pazienza e competenza ogni voce, e per lei si capisce che sono tutte storie importanti: un detenuto solleva un labbro e ci fa vedere che non ha più i denti, e lamenta che l’Azienda sanitaria non gli vuole pagare la protesi; un altro racconta che gli è morto da tre giorni un fratello e non potrà andare al suo funerale, un terzo si fa portavoce di tutta la sezione Alta Sicurezza per dire che non c’è lavoro, che hanno bisogno di lavorare, hanno pene lunghe e non possono pesare sulle famiglie.

Mi colpisce una cosa rara e preziosa di due persone come Marco Pannella e Rita Bernardini: la capacità di ascoltare e di far sentire le persone ancora vive e degne, appunto, di quell’ascolto, la combattività, la conoscenza approfondita dei problemi del carcere, l’attenzione a tutti, e in particolare anche a ogni agente che sta lì a testimoniare quanto sia duro lavorare in condizioni di degrado e rischio. Questo Capodanno resterà nel ricordo di tutti il Capodanno di carceri ormai al collasso in cui qualcuno, che le ritiene indegne di questo Paese, ha deciso di iniziare il nuovo anno rendendole con la sua presenza un po’ più trasparenti, un po’ più aperte, un po’ meno abbandonate.

Fonte: Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2010

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