IV DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE

da | Set 21, 2009 | La Parola per la Chiesa | 0 commenti

A cura di p. Giorgio

Vangelo della Risurrezione: Giovanni 20,11 – 18.
Lettura: 1 Re 19,4-8

In quei giorni. Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «alzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

Epistola: 1 Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmes­so: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova allean­za nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Vangelo: Giovanni 6,41-51

In quel tempo. I Giudei si misero a mormorare contro il Signore Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcun0 abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.

Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Commento

1. Quando ascoltiamo brani di Vangelo, pur così brevi, come la pagina di questa quarta domenica dopo il Martirio del Battista (Gv 6,41-51), la tentazione di «staccare l’audio» è forte. È vero: non è facile seguire questo brano con attenzione, perché non c’è trama, ma concetti e, per di più, concetti piuttosto lontani – almeno a prima vista – dalla nostra vita.. Gesù continua a parlare di «pane» (6,41.48.50.51); ma a noi non manca il cibo. Gesù precisa che si tratta di un pane «disceso dal cielo» (6,41.50.51; cf v. 42); ma a noi – a dire il vero – spesso interessa di più la terra. Gesù conclude con l’invito a mangiare la sua «carne» (6,51); ma, già ai suoi tempi, espressioni del genere sapevano di cannibalismo, tant’è che immediatamente si scatenò in tanti suoi ascoltatori un rifiuto sconcertato (6,52).

Certo, noi non ci scandalizziamo più di queste parole di Gesù semplicemente perché sappiamo che evocano il pane eucaristico, donato da lui «per la vita del mondo» (6,51). Noi sappiamo già tutto! Così, fin dalle prime battute del Vangelo, abbiamo lasciato che la mente volasse via per le sue distrazioni.

2. Come permettere a Cristo di entrare anche oggi in contatto con noi? Secondo me, la prima cosa da fare è proprio accantonare l’atteggiamento di chi, di fronte alle sue parole, dice a se stesso: «Lo so già!». Chi cede a questa tentazione, assomiglia a tanti in­terlocutori di Gesù, che, per non lasciarsi coinvolgere da lui, lo snobbavano, supponendo di saper già tutto di lui: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?» (Gv 6,42). S’illudevano di conoscere bene Gesù. Senza dubbio, sapevano qualcosa di lui: era vero che egli si chiamava Gesù e che proveniva da un determinato clan.

Qualcosa del genere vale per le nostre conoscenze religiose. Chi più chi meno, un po’ tutti abbiamo in mente vari dati della vita di Gesù di Nazaret. Li abbiamo appresi fin da piccoli in famiglia, a , -scuola, a catechismo … È indubbio che tante nozioni a suo riguardo siano anche corrette.

Ma proprio a causa di questa supposta conoscenza di Cristo, nel cuore di molti suoi contemporanei non c’era spazio per lui. Pieni di sé e saturi delle proprie conoscenze a suo riguardo, costoro erano diventati paradossalmente impermeabili a qualsiasi cosa egli avesse voluto rivelare loro.

Ebbene, se ci accorgiamo che stiamo correndo un rischio analogo nei confronti di Cristo, la prima cosa da fare è cestinare l’atteggiamento del «so già tutto».

E in positivo? Il Vangelo di questa domenica ci suggerisce di rimetter ci in gioco radicalmente di fronte a colui che è «disceso dal cielo» «per la vita del mondo» (6,51), perché ne va anche della nostra vita. La posta in gioco non è una realtà secondaria, come quando non si conoscono i dati necessari per superare un’inter­rogazione a scuola. Qui ne va della vita, ne va di noi stessi! Provate a contare quante volte si parla di «vita» e di «morte» nelle poche righe del Vangelo di oggi. lo sono convinto che in questa celebrazione eucaristica – come in ogni eucaristia – siamo messi dinanzi al caso serio della vita e della morte; e non tanto della vita o della morte «in genere», quanto piuttosto della «nostra» vita e della «nostra» morte.

3. Il racconto autobiografico Niente e così sia (1969), in cui la giornalista Oriana Fallaci (1929-2006) narra del suo primo anno trascorso in Vietnam, è essenzialmente il tentativo di rispondere :d la domanda di una bambina: «Che cos’è la vita?». Sapete che questa scrittrice amava definirsi «atea cristiana» (O. FALLACI, La forza della ragione, 2004). Non so bene che cosa abbia potuto significare davvero per lei questa auto definizione, ma sentite come affronta la domanda sulla vita, rivoltale, nella prima pagina del libro, da Elisabetta, una bambina di quasi cinque anni.

«”La vita”» risponde Oriana «”è il tempo che passa fra il momento in cui si nasce e il momento in cui si muore”.

“E basta?”.

“Ma sì, Elisabetta. Basta”. “E la morte cos’è?”.

“La morte è quando si finisce, e non ci siamo più”. “Come quando viene l’inverno e un albero secca?”. “Più o meno”.

“Però un albero non finisce, no? Viene la primavera e allora lui rinasce, no?”.

“Per gli uomini non è così, Elisabetta. Quando un uomo muore,

è per sempre. E non rinasce più”.

“Anche una donna? Anche un bambino?”. “Anche una donna, anche un bambino”. “Non è possibile!”.

“Invece sì, Elisabetta”.

“Non è giusto!”.

“Lo so. Dormi”.

“lo dormo ma non ci credo alle cose che dici. lo credo che quando uno muore fa come gli alberi che d’inverno seccano, ma poi viene la primavera e loro rinascono, sicché la vita deve essere un’altra cosa”».

4. lo penso che il Vangelo che abbiamo ascoltato possa far risorgere in noi l’interrogativo fondamentale della vita, proprio perché Gesù osa – e nessuno ha mai osato tanto in tutta la storia – presentarsi come la fonte unica della nostra esistenza eterna dopo la morte: «Chi crede [in me] ha la vita eterna» (Gv 6,47); «se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (6,51) «e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,44).

Per i ragazzi qui presenti, sarà forse la prima volta che si sentono rivolgere questa domanda così seria. Per la maggior parte di noi, sarà come ripercorrere un sentiero in salita già battuto più volte; un sentiero sempre nel deserto, come quello del profeta Elia, di cui narra la prima lettura (1Re 19,4-8). Anche per noi, come per il profeta, si tratterà magari di un percorso che richiederà «una giornata di cammino» (1Re 19,4). Voglio dire: sarebbe spiritual­mente fruttuoso, in questo «giorno del Signore» (cf Ap 1,10), trovare il tempo per tornare in chiesa – come il profeta «sotto una ginestra» – e porci di nuovo !’interrogativo sulla vita, qui, davanti al Signore. A differenza del profeta, non intraprenderemo questo sentiero in preda a un oscuro desiderio di morte (IRe 19,4), ma spinti dall’anelito di vita vera ed eterna, suscitato in noi dalle parole di Cristo.

Non accontentiamoci dell’atteggiamento superficiale che, anche di questa domanda «cruciale» della vita, ci propina la società. Un po’ come quella bambina del racconto della Fallaci, non accettiamo in maniera acritica risposte semplicistiche da parte di chi assicura di saper già tutto sulla vita, sulla morte, sull’amore, su Cristo e sul mondo intero … Certe volte, proprio come quella bambina, dobbiamo evitare di lasciarci sedare da risposte banali, nostre o altrui. Al contrario, continuiamo a dar retta, quasi cocciutamente, a tutti i suggerimenti autentici del nostro cuore, specialmente quando ci ripete: «”lo credo che quando uno muore fa come gli alberi” che a primavera rinascono. lo credo che l’uomo sia destinato ad una vita senza fine; e proprio perché c’è il “poi”, cerco di fare il bene qui ed ora». Questi aneliti di vita eterna – ci rassicura il Vangelo – provengono dal Padre, che anche così continua a istruirei e ad attrarci verso il Figlio (Gv 6,44-45). Anche attraverso questa voce del nostro cuore, che davanti alla morte umana, soprattutto dei nostri cari, ci urla dentro: «Non è giusto!», Dio Padre ci attrae alla salvezza, secondo quanto ci spiega Gesù: «Se uno si lascia attirare dal Padre mio, io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (cf Gv 6,44).

Ma poi cerchiamo di dare ascolto a tanti uomini e donne di fede, che, a partire dai primi testimoni oculari di Cristo crocifisso e risorto (cf 1Cor 15,3-8), hanno già percorso più volte quel sentiero i n salita. Lasciamoci illuminare dalla loro esperienza ecclesiale di vita evangelica, continuamente incentrata sulla comunione con i l corpo di Cristo e animata dal desiderio di annunciare – come dice l’apostolo Paolo nell’epistola (1Cor 11,23-26) – «la morte del Signore, finché egli venga» glorioso, alla fine dei tempi (11,26).

5. In effetti, Dio continua ad attrarci verso la vita eterna con Cristo risorto soprattutto attraverso l’eucaristia. Come? Ce lo lascia intuire san Paolo nella seconda lettura: il Signore risorto, lasciandosi assimilare da noi credenti sotto i segni eucaristici del «calice della benedizione» e del pane spezzato, finisce per assi­milarci a sé, per renderei sempre più simili a sé. Si crea quindi un legame inscindibile tra il Crocifisso risorto, il suo corpo ecclesiale e il suo corpo eucaristico. San Paolo lo ha spiegato nella Prima lettera ai Corinzi, poco prima del brano che abbiamo letto oggi: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (10,16-17; cf 11,26).

Capite allora in che senso l’eucaristia, messa al centro dell’esperienza di fede di una comunità cristiana, diventa lo strumento attraverso cui Dio plasma e riplasma di continuo l’esistenza dei fedeli, donando loro la possibilità d’iniziare fin d’ora a partecipare della stessa vita del suo Figlio risorto. In questo senso, l’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini (1927-), nella sua Lettera pastorale sull’eucaristia, sosteneva che «mettere l’eucaristia al centro vuol dire riconoscere questa forza plasmatrice dell’eucaristia, disporsi a lasciarla operare in noi non solo come singoli, ma anche come comunità cristiana, e accettare le condizioni e le implicazioni di questo evento unico e rivoluzionario che è la Pasqua immessa nel tempo dell’uomo» («Attirerò tutti a me» [Gv 12,32). L’eucaristia al centro della comunità e della sua missione, Lettera al clero e ai fedeli per l’anno pastorale 1982/83, n. 8).

Questo legame tra Cristo, la Chiesa e l’eucaristia è decisivo per rispondere alla domanda che ci siamo posti prima sul senso della nostra vita e della nostra morte, e per rispondervi non in manie­ra individualistica. Difatti che cosa fa il Signore nell’eucaristia? Nella celebrazione eucaristica, il Risorto continua a vivificare la comunità cristiana, facendo memoria nello Spirito della propria passione e morte come «passaggio» «da questo mondo al Padre» (Gv 13,1). Così c’insegna a vedere la morte il Signore Gesù: come un «passaggio» – sia pure traumatico come una nascita (cf Gv 16,21) – «da questo mondo al Padre».

Attualmente presente nella celebrazione eucaristica, il Signore risorto assimila e conforma a sé i fedeli (cf Rm 8,29; Fil 3,10) attraverso l’azione del suo Spirito (cf 2Cor 3,18). In questo senso, si può dire che originariamente e primariamente è l’eucaristia – cioè Cristo – a «fare» la Chiesa, trasformandola nel suo corpo. Ed è grazie alla Chiesa, plasmata in maniera permanente da Cristo come suo corpo, che seguita ad essere annunciato nel mondo l’«evange­lo» della vita, la «bella notizia» che abbiamo sentito proclamare qualche momento fa: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Mediante la Chiesa, di cui tutti noi facciamo parte, risuona ancora sulla faccia della terra questa «bella notizia»: a tutti è data la possibilità di una vita in comunione con il Signore, che, una volta iniziata in questo mondo, prosegue per l’eternità. Non solo: per mezzo della Chiesa, gli uomini sono messi in condizione di poter sperimentare, nell’eucaristia e negli altri sacramenti, i gesti di bontà di Gesù risorto. Per questo, i credenti possono vivere con lui e «in memoria di» lui (1Cor 11,24; cf Lc 22,19); ossia sono abilitati a vivere come ha vissuto lui, giungendo per amore degli altri a sacrificare se stessi (cf Eb 9,14).

6. Capite perché, anche quest’oggi, possiamo essere rinvigoriti – come il profeta Elia – dal «pane degli angeli» (1Re 19,4-8) e possiamo riprendere il cammino della vita con la speranza donataci dal Crocifisso risorto, che ci rassicura: «Non temere! Se mangi di questo pane, entri in comunione con me e anche tu vivrai per sempre con me» (cf Gv 6,51). Corroborati da questa promessa di Colui che ha vinto la morte (cf l’annuncio della risurrezione: Gv 20,11-18), vogliamo accostarci con gioia all’eucaristia per «gustare e vedere com’è buono il Signore» (salmo responsoriale: Sal 33,23.6-9: v. 9).

Non più angosciati dal terrore di essere risucchiati e dissolti nel buco nero della morte, possiamo uscire di chiesa «raggianti» (Sal 33,6), coltivando in cuore un desiderio sincero: vivere «in memoria me» Cristo, come ci ha invitato a fare egli stesso durante l’ultima cena (1Cor 11,24); cercare di «essere» sua memoria vivente con le persone che egli ci farà incontrare lungo i sentieri della vita.

7. Continuiamo allora questa celebrazione, chiedendo a Dio di attrarci alla comunione con Cristo (Gv 6,44), anche grazie all’interrogativo sanamente inquietante sul senso della nostra vita e sull’esperienza ineluttabile della nostra morte. Ma chiediamogli soprattutto di rinvigorire in noi, attraverso la comunione con Cri­sto, la speranza in un’esistenza vera ed eterna con lui e con tutte le persone che amiamo.

Signore Gesù, «alla tua mensa divido con te / il pane della tenerezza e della forza, / il vino della letizia e del sacrificio, / la parola di sapienza e della promessa, / la preghiera del ringraziamento / e dell’abbandono nelle mani del Padre.

E ritorno alla fatica del vivere / con indistruttibile pace. / Il tempo che è passato con te / sia che mangiamo sia che beviamo / è sottratto alla morte. / Adesso, / anche se è lei a bussare, / io so che sei tu a entrare; / il tempo della morte è finito» (C.M. MARTINI, Vedere il mondo con gli occhi di Dio. Preghiere, 2005). Così sia.

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