Da novembre anche in Italia cambieranno alcune frasi della preghiera più conosciuta. Da “non indurci in tentazione” si passerà a “non abbandonarci alla tentazione”. Proponiamo una riflessione del Cardinal Gianfranco Ravasi
È stato uno stillicidio che mi ha accompagnato da anni. La domanda era sempre la stessa, anche da parte dei lettori di questa pagina: come si giustifica la sesta delle sette invocazioni di quell’oratioperfectissima di Gesù – come la definiva Tommaso d’Aquino – che è il Padre nostro, cioè “non ci indurre in tentazione”? i giornali hanno già riferito le considerazioni di papa Francesco sulla incongruità di questa resa a cui poi si è associata la Conferenza Episcopale Italiana, mentre altri vescovi di varie lingue avevano da tempo introdotto variazioni del tipo “non abbandonarci alla tentazione”, “non farci entrare nella tentazione”, “non lasciarci entrare in tentazione” e così via. È curioso notare che la “brutalità” della resa latina della Vulgata – ne nos inducas in tentationem – creava imbarazzo già nell’VIII secolo: due manoscritti latini dei vangeli, il cosiddetto CodexDublinensis e il CodexRushworthianus, conservato a Oxford, la sostituiscono con un significativo Ne nos patiarisinduci, “non tollerare che noi siamo indotti in tentazione” (sottinteso “da Satana”). Due altri codici di un’antica versione latina precedente alla Vulgata, il Bobbiensis(V sec.) e il Colbertinus (XII sec.) variano in questa stessa linea: “Non sopporterai che noi siamo indotti in tentazione”.
Cerchiamo, allora, di risalire all’originale greco che, comunque, ha certamente un sottofondo aramaico, la lingua usata da Gesù, in cui il verbo usato aveva probabilmente un valore permissivo, “non lasciarci/ non farci entrare in tentazione”.
L’indurre italiano è, per altro, già eccessivo rispetto al greco di Matteo (6,13) eisenénkes(da eis-phéro): esso letteralmente indica un “non portarci verso”, diverso dall’ “indurre” che è uno “spingere” qualcuno concretamente a compiere un’azione. Il senso genuino è, allora, quello di non essere esposti e abbandonati al rischio della tentazione. A questo punto, però, è necessario distinguere tra “tentazione – prova” e “tentazione – insidia”, accezioni entrambe possibili nel greco peirasmosusato da Matteo. La prova può avere come soggetto Dio che vaglia la fedeltà e la purezza della fede dell’uomo: pensiamo ad Abramo, invitato a sacrificare Isacco, il figlio della promessa divina (Genesi 22), a Giobbe, a Israele duramente “corretto” da Dio nel deserto “come un uomo corregge il figlio” (Deuteronomio 8,5). È un’educazione alla fedeltà, alla donazione disinteressata, all’amore puro e senza doppi fini. Significativa al riguardo è una frase della Prima lettera ai Corinzi di s. Paolo “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sopresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (10,13).
Diversa è la “tentazione insidia” che mira alla ribellione dell’uomo nei confronti di Dio e della sua legge e che, a prima vista, dovrebbe avere come radice Satana o il mondo peccatore. Ebbene, se è facile comprendere l’applicazione nel caso della prova (si chiede a Dio di non provarci troppo aspramente e di non lasciarci soccombere in quel momento oscuro), è più complesso giustificare la seconda attribuzione a Dio. Sì, perché – strettamente parlando – nella Bibbia sembra che anche Dio possa “tentare” al male. Lo si legge, ad esempio, nel Secondo Libro di Samuele: “Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele” (24,1). La domanda del Padre nostro potrebbe, perciò, avere anche questa sfumatura.
Ma come spiegarla? La risposta è nella mentalità semitica: essa per evitare di introdurre il dualismo di fronte al bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell’unico Dio, bene e male, grazia e tentazione. In Isaia il Signore non esita a dichiarare: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io; il Signore; compio tutto questo!” (45,7). In realtà, si sa che il male morale dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata riguardante Davide nel racconto parallelo dei libri delle Cronache viene corretta e suona così: “Satana spinse Davide a censire gli israeliti” (I,21,1).
Pregando il Padre divino di “non indurci in tentazione” si voleva, allora, domandargli sia di non provarci con durezza, cioè di non esporci a prove troppo pensanti per la nostra realtà umana, sia di non lasciarci catturare dalle reti del male, di non permettere che entriamo nel cerchio magico e affascinante del peccato, di non esporci all’insidia diabolica. In questa invocazione sono, perciò, coinvolti temi capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il dolore e la speranza, il bene e il male.
Importante è, a questo proposito, anche la settima e ultima domanda che è la versione positiva della precedente: “Liberaci dal male!”. È interessante notare che nell’originale greco si può immaginare nel vocabolo poneroùsia la traduzione “del male” sia “del Maligno”, cioè il diavolo, ed entrambi i significati sono accettabili e possono coesistere. Durante l’ultima cena Gesù offre a Pietro una rappresentazione suggestiva dell’aiuto divino a “liberarci dal male/ Maligno”: “Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vegliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22,31-32). Annotava un noto teologo ortodosso francese, Olivier Clément (1921-2009): “ il Padre nostro non è concluso da una lode o da un ringraziamento, ma rimane sospeso in un pressante grido di miseria”, mentre l’uomo si sente sul ciglio del baratro oscuro del dolore e del male.
È per questo che alcuni codici antichi, seguiti dalla tradizione e dal culto protestante, hanno sentito il bisogno di aggiungere in finale al Padre nostro questa esclamazione: “Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli!”. Ma, con la finezza che le è solita e la sua sensibilità per il messaggio cristiano, nonostante la sua matrice ebraica, Simone Weil nella sua opera Attesa di Dio (1950) osservava acutamente che il percorso del Padre Nostro è antitetico rispetto a quello che regge di solito ogni preghiera che va dal basso verso l’alto, dall’uomo e dalla sua miseria a Dio e alla sua luce. Qui, invece, si parte dal cielo e si scende fin nel groviglio oscuro del male.
da “Il Sole 24 Ore” – 28 gennaio 2018
0 commenti