un gruppo di estimatori di P. Vincenzo Damarco CM (morto a Sarzana nel 1974) ha deciso di fare una nuova edizione dei commenti ai vangeli fatti da P. Damarco oltre 40 anni fa e già pubblicati allora. L’iniziativa è nata da “un gruppo di persone che conserva viva la memoria di un missionario della CM a oltre quarant’anni della sua morte, segno che ha dato una buona testimonianza di fede e che “ha saputo coltivare il dialogo, la tolleranza, la riflessione attenta sulle cose del mondo ed è riuscito a formare cristiani coscienti dei valori profondi delle loro fede e impegnati a metterla in pratica anche nelle opere della giustizia e della pace” (dalla Prefazione di Giovanni Cereti).
La nuova edizione sarà presentata a Sarzana l’11 giugno p.v. Nel frattempo ne pubblichiamo qui di seguito l’intera Prefazione del teologo Giovanni Cereti.
Prefazione per la nuova edizione del “Commento ai Vangeli”
di padre Vincenzo Damarco
“La figura di padre Vincenzo Damarco, la sua opera pastorale e i suoi scritti hanno rappresentato e ancora rappresentano per Sarzana e le comunità circostanti un punto di riferimento ecclesiale e culturale di straordinaria importanza. Va detto che in questo si trovano accomunati credenti e non credenti che hanno frequentato padre Damarco negli anni della sua presenza a Sarzana; lo dimostra, per tacer d’altro, la decisione dell’amministrazione comunale di intitolare a lui il vialetto di accesso a quella che per alcuni secoli è stata la ‘Casa della Missione’”.
Questa citazione, tratta da uno scritto confidenziale di una persona che lo ha conosciuto bene e che ancora oggi si sente legata a questa comunità spirituale animata a suo tempo da padre Vincenzo Damarco, ci dice che quando un gruppo di persone conserva così viva la memoria di un cristiano e di un prete a oltre quarant’anni di distanza dal momento in cui ci ha lasciato ciò significa che quel prete ha dato buona testimonianza della sua fede e ha costruito su fondamenta solide per il futuro. Questa inalterata ammirazione e questa convinzione che egli è stato un prete, un religioso, un cristiano, umile e fedele e nello stesso tempo profetico nelle sue affermazioni, convinzione che ho riscontrato con stupore e gratitudine nell’ambiente in cui egli ha lavorato, costituisce un tesoro prezioso per la chiesa locale nella quale egli ha servito, al punto che questo ricordo positivo e costante viene preso in considerazione come uno degli elementi che a norma del diritto canonico hanno importanza fondamentale persino per i processi che conducono al riconoscimento delle virtù eroiche di una persona nel corso di un processo di beatificazione.
La comunità che ne conserva vivo il ricordo ha il suo centro nella cittadina di Sarzana, cara al mio cuore perché fu nel duomo di Sarzana che i miei nonni materni, Giovanni Beverini e Rita Machiavelli, celebrarono il loro matrimonio alla fine dell’Ottocento. Fu in questa cittadina, oggi capoluogo della Lunigiana, che padre Antonio Vincenzo Damarco (Casale Monferrato 1922 – Sarzana 1974) ha lavorato da metà degli anni Cinquanta sino al 1970, per poi tornarvi brevemente negli ultimi tempi della sua vita. Religioso vincenziano, egli è stato molto attivo e apprezzato nelle diverse località in cui ha esercitato il suo ministero, soprattutto come educatore. Il suo lavoro si è svolto fra i giovani, come professore e direttore di collegio, a Savona, a Cagliari, a Verona e soprattutto a Sarzana, dove ha diretto la ricordata Casa della Missione che consentiva a molti giovani anche di famiglie disagiate di seguire gli studi con formatori di grande qualità.
Oltre al suo compito di educatore dei giovani, egli svolse con convinzione nella stessa Sarzana un servizio pastorale, sia nella chiesa di Nostra Signora del Carmine, sia più tardi nella cattedrale di Santa Maria Assunta, attraverso la celebrazione dell’Eucaristia, la predicazione e il ministero del confessionale. A lui il vescovo affidò l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari del gruppo sarzanese della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), mentre egli si impegnò anche a collaborare con gruppi all’epoca molto fiorenti, come “Mani Tese” e il locale “Comitato per l’amicizia con i popoli nuovi” (che si ispirava a La Pira).
Il Concilio Vaticano II
L’evento che ha soprattutto segnato la vita di Padre Damarco è stato comunque soprattutto il concilio Vaticano II, questa straordinaria Pentecoste al cuore del secolo ventesimo, che tante speranze ed entusiasmi seppe suscitare all’epoca del suo svolgimento, particolarmente in coloro che (come lo stesso Damarco, secondo diverse testimonianze che ci sono pervenute) invocavano un concilio già sotto il pontificato di Pio XII.
Il concilio in effetti costituì un evento di incalcolabile portata ai fini di un rinnovamento nella chiesa, in una misura difficilmente comprensibile a coloro che non hanno conosciuto la vita della chiesa preconciliare. Dopo secoli nel corso dei quali ogni proposta di riforma era considerata con sospetto come cripto-protestante, e nei quali la chiesa cattolica si trovava in crescente polemica con tutti gli sviluppi del pensiero umano sul piano della scienza, della politica, dei rapporti con gli altri, il concilio Vaticano II ha consentito alla stessa chiesa cattolica di riacquistare un’autentica cattolicità, attraverso la riforma della liturgia, la nuova centralità riconosciuta alla Sacra Scrittura, la riflessione sul mistero della chiesa, il dialogo con il mondo contemporaneo, la svolta ecumenica, le nuove relazioni cui apriva la strada grazie alle sue decisioni sia con la scienza moderna, che con le autorità statuali, che con i fratelli e sorelle del popolo ebraico e anche delle altre religioni. La svolta nei rapporti con le altre chiese decisa dal decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio e la nuova affermazione della libertà religiosa con la dichiarazione Dignitatis Humanae furono talmente importanti da essere individuate dai contestatori del concilio, e innanzitutto dai lefebvriani, come i due documenti di cui questi ultimi esigevano (ed esigono tuttora) la cancellazione come condizione per il loro rientro nella chiesa.
Le decisioni del concilio vennero seguite con grande attenzione e accolte con entusiasmo negli ambienti più consapevoli della comunità cattolica, che le attendevano da tempo e che spesso le avevano preparate con la loro riflessione e con la loro azione, come riconosce Unitatis Redintegratio al paragrafo 6. Purtroppo, la loro traduzione in atto, che poteva dare vita a un’autentica riforma nella chiesa, dopo un primo periodo di attuazione entusiasta (testimoniata soprattutto dalla riforma liturgica postconciliare) venne ben presto smorzata e normalizzata nel timore di tensioni e di divisioni all’interno della comunità cattolica fra quanti avevano al riguardo diversi orientamenti. Il concilio aveva disposto seguendo l’ispirazione di papa Giovanni di non condannare e quindi di non rimuovere dalle loro responsabilità ecclesiali coloro che si erano opposti alla svolta conciliare, così come era accaduto in concili precedenti nei quali chi aveva sostenuto posizioni contrarie alle decisioni del concilio era stato condannato e deposto come eretico. La conseguenza di questa decisione fu comunque che quanti avevano combattuto contro le svolte conciliari conservarono le loro posizioni di responsabilità e continuarono a intervenire anche con minacce di scissioni nei confronti di papa Paolo VI perché le riforme fossero ridimensionate. Al contrario, accadde che molto frequentemente coloro che avevano meglio compreso le decisioni conciliari e intendevano seguirle con fedeltà venivano considerati con crescente diffidenza a livello locale sino a essere spesso squalificati come contestatori. In tal modo le svolte conciliari nei diversi ambiti, i principi relativi al primato della coscienza e della libertà religiosa, il nuovo impegno della chiesa per contribuire alla pace e allo sviluppo dei popoli, e in particolare i nuovi orientamenti nei rapporti con gli altri cristiani, con gli ebrei e con le religioni non cristiane, vennero sempre più soffocati o interpretati in senso conservatore da quanti pur conservando posizioni di responsabilità nella chiesa consideravano le acquisizioni del concilio come un errore che avrebbe dovuto essere al più presto cancellato.
Il soffocamento delle decisioni conciliari a livello locale
Il padre Damarco, che condivideva le decisioni conciliari e che da parte sua era da sempre in dialogo e accogliente nei confronti di tutti, si trovò allora particolarmente vicino a quei laici che appassionandosi allora alle vicende della chiesa e impegnandosi in senso riformatore vennero (per lo più a torto) definiti contestatori e quindi circondati di sospetto e diffidenza e progressivamente emarginati nelle loro stesse comunità.
I religiosi ne ebbero a soffrire doppiamente. Infatti quanto accadeva nelle comunità cristiane locali si ripercuoteva con divisioni analoghe anche all’interno delle comunità religiose, nelle quali coloro che avevano compiuto in fedeltà al concilio un cammino di conversione all’evangelo e all’ecumenismo si trovarono molto spesso come dei disadattati all’interno della propria stessa comunità, che non aveva saputo impegnarsi nello stesso cammino di conversione. Non solo nella chiesa in generale ma anche all’interno degli ordini e delle congregazioni religiose molti di coloro che non avevano gradito le decisioni conciliari conservarono od ottennero posizioni di responsabilità, mettendo in difficoltà quanti desideravano essere più fedeli al concilio. Accadde così che, per esempio, nei soli Stati Uniti circa un terzo delle religiose dovette lasciare in quegli anni la vita religiosa. Ma un esodo doloroso si compì anche in Italia, dove l’esito dello scontro fra quanti avevano abbracciato con entusiasmo la svolta del Vaticano II e quanti continuavano a fraintendere o a essere ostili nei confronti delle sue decisioni si concluse con un prevalere di questi ultimi che rese impossibile a molti il continuare a vivere nelle stesse comunità.
Padre Damarco, pur trovandosi fra coloro che avevano compiuto questo cammino di più profonda conversione all’evangelo deciso dal concilio, non volle tuttavia abbandonare la congregazione nella quale aveva consacrato la propria esistenza al Signore né venir meno alla missione alla quale aveva dedicato la vita, ma fu coinvolto anch’egli nelle conseguenze di questo scontro per cui dovette accettare nel 1970 l’allontanamento da Sarzana dove pure continuò a restare il suo cuore.
L’amore alla Scrittura e l’adesione al metodo storico critico
Il suo cammino di conversione si era realizzato soprattutto attraverso la predicazione e lo studio della Scrittura, in conformità alle indicazioni della Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla Divina Rivelazione, così come testimoniano le omelie che vengono qui ripubblicate. Esse non presentano un quadro competo delle letture che vengono fatte nel corso dei tre cicli degli anni liturgici decisi nella riforma postconciliare entrata in vigore con l’Avvento del 1969. Le omelie che si conservano furono inviate dallo stesso padre Damarco agli amici di Sarzana, oppure sono in parte il frutto di una casualità, legata alle persone che le hanno ascoltate e le hanno trascritte e conservate anche per noi. Una ricchezza di riflessioni e di suggerimenti che possono essere colte soltanto in una lettura diretta di queste omelie. Quello che emerge da questi scritti è soprattutto il fatto che il padre Damarco era attento ai nuovi modi di leggere la Bibbia, che erano stati liberalizzati nella chiesa cattolica con l’enciclica di papa Pio XII del 1943, la Divino Afflante Spiritus, e confermati dal concilio con la Dei Verbum.
Chi infatti ritiene che sia sufficiente una lettura ingenua della Bibbia, una lettura ‘sine glossa’ come dicevano i medievali, o chi apre la Bibbia a caso e ritiene così di trovarvi direttamente una risposta ai nostri problemi, ha una concezione magica e non cristiana della Bibbia. Si deve riconoscere che per secoli questa forma di interpretazione è stata seguita nel mondo cristiano, sino a che lo sviluppo della cultura non ha consentito di superare questa posizione prescientifica. Ancora un secolo fa, nella chiesa cattolica era obbligatorio intendere tutto alla lettera così come suona per noi, come se la Bibbia fosse stata scritta oggi, con il nostro linguaggio e la nostra cultura.
In realtà, secondo la concezione cristiana, la Bibbia ha un duplice autore: lo Spirito di Dio (che ha ispirato l’autore sacro, probabilmente senza che lui stesso se ne rendesse conto), e l’autore umano, al quale appartengono la lingua, la cultura, la mentalità che viene espressa nei libri della Sacra Scrittura. Per questo è necessario conoscere la cultura e la mentalità dei diversi autori, e comprendere così ciò che essi volevano esprimere nei testi che ci sono stati tramandati. In questo senso, al fine di evitare interpretazioni soggettive e spesso distorte, nella chiesa cattolica si raccomandava che le edizioni della Scrittura comportassero delle note che aiutavano i lettori a conoscere i presupposti storici e culturali dei diversi libri e che informavano sull’interpretazione che dei singoli passi veniva data nella comunità cristiana. Il metodo storico-critico va comunque oltre, parlando dei generi letterari e chiedendo di discernere quale poteva essere l’intenzione dell’autore sacro nel redigere quelle pagine: intendeva fare un racconto storico? Una riflessione di tipo sapienziale? Un romanzo edificante?
L’esempio più conosciuto è quello del primo racconto della Creazione, in Genesi 1. In esso viene presentato un racconto mirabile sulla Creazione del mondo in sei giorni, dopo i quali il Creatore si riposò. Per secoli, si cercò di far coincidere questo racconto che veniva inteso alla lettera come racconto storico con le spiegazioni scientifiche dell’origine del mondo: e si interpretavano i giorni come ere geologiche, si cercava di spiegare da dove venisse la luce prima della creazione del sole, e così via. Fu proprio in quegli anni che in uno studio di Enrico Galbiati – Alessandro Piazza, Pagine difficili dell’Antico Testamento, uscito nel 1954, esplorando l’intenzione dell’autore veniva offerta anche ai non specialisti l’interpretazione che appariva più convincente: l’autore sacro non aveva avuto alcuna rivelazione sull’origine del mondo, egli intendeva soltanto insegnare che tutto veniva da Dio, che l’uomo e la donna erano il capolavoro della Creazione, ma quanto ai sette giorni mirava soltanto con questa forma letteraria a inculcare nel popolo di Dio l’osservanza della settimana e del riposo del sabato.
Tra i tanti metodi di lettura della Bibbia, il metodo-storico critico ci consente oggi di superare molti dei problemi interpretativi, che nelle generazioni passate avevano costituito per tante persone difficoltà insuperabili per accettare la fede. Questa interpretazione, che ha avuto la sua prima origine soprattutto nelle università anglosassoni e nel mondo protestante, è oggi sostanzialmente accettata e fatta propria da tutte le grandi chiese storiche che esistono nel mondo. Essa ha anche permesso di superare la contesa fra il Sola Scriptura dei Riformatori e la “Scrittura e Tradizione” della chiesa cattolica. Oggi tutti riconoscono che, se parliamo del Nuovo Testamento, ci fu un lungo periodo di trasmissione a voce del messaggio, fino a che esso non venne fissato nei quattro evangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento. La Scrittura è nata quindi da una Tradizione orale e viene compresa pienamente nella Tradizione, pur facendo oggi tesoro degli apporti di studiosi di tutto il mondo che cercano di spiegare ogni singolo passaggio della Bibbia ponendolo nel suo contesto culturale e sforzandosi di intendere meglio l’intenzione di ogni singolo autore sacro.
A questo metodo storico critico, allora non ancora pienamente accolto nella pratica pastorale, si è ispirata la predicazione di padre Damarco, quale la ritroviamo nei testi presenti in questo volume, e anche questa scelta contribuisce a spiegare le emarginazioni che egli dovette subire.
L’eredità di padre Vincenzo Damarco
Nella memoria di chi lo ha conosciuto, è restato soprattutto il ricordo della sua grande attenzione alle persone, della sua preoccupazione di farle crescere, della sua accoglienza nei confronti degli ultimi, della sua partecipazione anche a lotte sociali per il rispetto del diritto al lavoro e della dignità delle persone. Per lui, molto giustamente, le persone valevano in quanto persone, indipendentemente dalle loro convinzioni politiche e religiose: dialogando con esse riusciva sempre a provocare momenti di riflessione e di confronto anche su tematiche le più intime e le più personali. In un mondo in vorticosa evoluzione egli ha saputo coltivare il dialogo, la tolleranza, la riflessione attenta sulle cose del mondo ed è riuscito a formare cristiani coscienti dei valori profondi della loro fede e impegnati a metterla in pratica anche nelle opere della giustizia e della pace.
Uomo di cultura e sacerdote aperto al libero confronto con tutti, vissuto in un momento particolare della chiesa italiana, in un’epoca nella quale fiorivano innumerevoli comunità ecclesiali e si risvegliava l’Italia migliore, nell’attenzione agli altri, nel volontariato disinteressato a favore degli ultimi, nell’impegno per la pace e per la solidarietà al di là di tutte le frontiere, la sua figura è stata giustamente accostata a quella di don Lorenzo Milani, nella sua preoccupazione di educare i poveri e i piccoli della società, che non conoscono le parole per intervenire nel dibattito pubblico, a prendere anch’essi la parola e a partecipare in pienezza alla vita della comunità, comunità ecclesiale e comunità civile.
Un merito particolare gli viene riconosciuto nell’aver saputo discernere i segni dei tempi, così come ci insegna il concilio Vaticano II, e nell’aver aiutato altri a discernerli, impegnandosi attivamente nella vita della chiesa e della società. La sua attenzione al soffio dello Spirito ha fatto di lui un profeta che è stato ascoltato da pochi, e che come ogni profeta ha conosciuto anche l’emarginazione.
Nella crisi etica che stiamo attraversando, legata anche al fatto che la chiesa che è in Italia sembra non aver più saputo parlare alle nuove generazioni, o che forse ha perso la loro fiducia per tanti dolorosi errori o scandali accaduti nella stessa chiesa, la sua figura di educatore risalta in tutta la sua attualità.
Oggi il padre Damarco può essere riscoperto nel clima creato da papa Francesco che vuole che si vada ai poveri e agli ultimi, che vuole superare ogni forma di dominio clericale nella chiesa per aprirsi ai doni di cui sono portatori tutti i membri della comunità, e che desidera dare voce anche a chi non ha voce. Egli infatti ha formato una comunità spirituale che ancora oggi venera la sua figura, che ricorda come da padre Damarco ha imparato il valore della ricerca e il rispetto delle diversità, e che ancora oggi afferma con le parole di un suo esponente che “custodire l’eredità di questi nostri fratelli maggiori, reinventarla, approfondirla, trasmetterla, è il compito che abbiamo verso la generazione che ci segue”.
Non si può tuttavia concludere senza ricordare che forse sarebbe compito anche delle diverse congregazioni religiose, delle diverse comunità locali, e in genere delle comunità cristiane a livello di diocesi, il saper riconoscere i propri errori e domandare perdono a Dio e ai fratelli e sorelle che hanno sofferto tanto per le incomprensioni e le emarginazioni incontrate nella loro stessa chiesa e comunità, ma che hanno contribuito nel silenzio e nella sofferenza a fare crescere la chiesa e il genere umano verso quella pienezza che sappiamo essere nel disegno di Dio sulla nostra umanità.
Roma, Pasqua di Risurrezione 2016
Giovanni Cereti
Ho vissuto in collegio un anno e parlato á lungo con lui.
Ho un commento ai vangeli del 72