Italia ci sono 17mila homeless, il 60% sono stranieri

da | Ott 6, 2009 | Carcere | 0 commenti

di Alberto Giannino

www.imgpress.it, 24 settembre 2009

In tutta Italia, i senza fissa dimora, sono 17 mila: 5.000 a Milano ( lo scorso inverno ne sono deceduti per freddo ben nove), 2.000 a Torino e poco meno a Napoli, Firenze e Bologna, almeno secondo un rapporto illustrato a Roma e basato su rilevazioni Caritas e sulle cifre riferite dalla Comunità di S. Egidio.

Nella Capitale 4.000 senza tetto dormono per strada ogni notte, 1.000 sono ospiti nei centri di accoglienza notturni del Comune e dei volontari e altri 1000 occupano fabbricati fatiscenti, baracche o altro. In tutto sono 6 mila solo a Roma di cui il 60% sono stranieri, la maggior parte dei quali provenienti dall’Est, dall’Afghanistan e rifugiati. Gli italiani, il 40%, nell’ultimo anno sono stati in lieve aumento.

Tra le persone che si sono rivolte alla mensa romana di via Dandolo gestita dalla Comunità di S. Egidio, aumenta l’età degli italiani, che si attesta intorno ai 44 anni. Invece secondo i dati nazionali il 50% degli homeless italiani dichiara di vivere per strada da più di 4 anni e il 18,7% provengono da situazioni di disgregazione familiare. Oltre il 20% degli senza fissa dimora sono alcolisti, il 15% tossicodipendenti e un altro 15% ha problemi psichici.

Tra costoro vi sono, ovviamente, vagabondi, immigrati ma anche nuove realtà, come quelle delle famiglie penalizzate dalla crisi economica o, semplicemente, disorientate da un divorzio. Negli ultimi anni, con i repentini cambiamenti della società, sono mutate anche le forme di povertà. Gli studiosi ed i giornalisti che seguono più da vicino questi aspetti sociali emergenti hanno anche coniato un sillogismo che li descrive definendoli nuove povertà. In realtà, più che nuove forme di disagio, le povertà sono oggi aspetti di un problema più ampio, quello dell’esclusione sociale.

È meglio impiegare questo termine anziché parlare di nuove povertà, per non dare l’impressione che le vecchie povertà, quelle basate sulla mancanza di reddito, sulla precarietà e l’indigenza, siano scomparse: non è così, non sono sparite affatto, sono sempre tra noi ed hanno sempre le stesse espressioni di un tempo. Tuttavia, la povertà è cambiata nel senso che oggi il rischio di cadere in povertà non è più un qualcosa che proviene dall’esterno, dalle epidemie, dalle carestie, dalle calamità naturali o da un destino iscritto sin dalla nascita nella vita delle persone.

Oggi, questo rischio proviene soprattutto dall’interno; è un rischio autoprodotto, che viene dalla società stessa, dal funzionamento del sistema economico. Sono aumentate le disuguaglianze di reddito, sono cresciuti i lavori precari, sono diminuiti tutti quegli ammortizzatori sociali che mettevano un freno alle degenerazioni sociali, soprattutto però è andata sempre più perdendo il suo ruolo di “protezione e crescita sociale” la famiglia.

Ma chi sono i nuovi poveri? L’esclusione da alcuni servizi sanitari è certamente una forma di povertà, come lo è la solitudine degli anziani che vivono abbandonati nelle proprie case e come lo sono tutte quelle “devianze” che avvengono in famiglie cosiddette normali: disgregamento degli affetti, abbandono scolastico dei figli, le difficoltà di integrazione e convivenza con altre culture, la microusura, l’alcolismo e le altre dipendenze.

Povertà sono anche quelle dei malati di Aids che grazie alle nuove cure hanno allungato la propria speranza di vita, al momento però solo per rimanere emarginati più a lungo. Povertà è anche un sistema carcerario che non riesce a costruire un futuro per i detenuti, e che quando li “rilascia” l’unica cosa che dona loro è un sacco nero per l’immondizia dove mettere i vestiti. Tutte forme di disagio che spesso rimangono nascoste tra le quattro mura, a cui non si pensa perché impegnati nei nostri stili di vita e nella scala di valori che ci siamo dati. Questi mutamenti richiamano noi cristiani a riflettere sul termine di carità. In particolare a soffermarci sul suo significato.

L’impegno della Chiesa in questi anni, secondo l’ex Direttore della Caritas di Roma, mons. Di Tora, è stato anzitutto rivolto a purificare il significato di carità, invitando la comunità a viverlo come basilare valore del cristianesimo e come quotidianità nella vita dei credenti. Dire carità vuol dire Dio e Dio, sappiamo che, nella concezione cristiana, è comunità di persone uguali e distinte: uguali nella distinzione.

Ancora oggi invece, nelle comunità cristiane, la carità è interpretata in termini di assistenza, devitalizzando l’originario significato che riveste e che costituirebbe un fondamentale lievito per quanti si impegnano per la giustizia e per l’uguaglianza.

Il concetto di carità, in particolare nella sua accezione che richiama ad uno stile di vita solidale, rappresenta certamente un grande valore della storia del cristianesimo ma, soprattutto, costituisce per il futuro il fondamento della società chiamata a confrontarsi con i problemi legati alle diversità. Ecco allora l’impegno a cui sono chiamati tutti i cristiani e per cui le Confraternite, organizzazioni che nella storia della Chiesa sono tradizione di carità, devono essere guida ed esempio: affrontare il problema della diversità – diversità di ogni genere, a livello sociale, economico, culturale, religioso, razziale – considerandole come occasione di solidarietà e condivisione.

Sono molti gli ambiti in cui concretamente si può intervenire. Organizzazioni radicate nel territorio, a volte in singoli quartieri delle città, come molte Confraternite, hanno la possibilità di sviluppare quelle forme di volontariato “porta a porta”. Gli anziani soli, l’assistenza domiciliare ai malati che non possono spostarsi dall’abitazione (malati oncologici, malati terminali di Aids), il sostegno ai familiari di persone disabili, malate psichiche. Altri ambiti di intervento possono essere le forme di sostegno alle famiglie.

Opere di sostegno ai nuclei in difficoltà economiche, di rapporti, di alloggio, per aiutare a preservare la Famiglia, istituzione della società. Tutte situazioni in cui, oltre ad una formazione specifica al volontariato, occorre – secondo mons. Di Tora – la capacità evangelica di saper discernere i bisogni dei più poveri alla luce di quella che Giovanni Paolo II chiamava nella Novo Millennio Ineunte la “fantasia della carità”.

Il compito primario degli organismi che lavorano nel sociale però, è molto più ampio della pura e semplice risposta diretta alle povertà con aiuti materiali. Siamo chiamati infatti ad educare alla carità. Come cristiani inoltre siamo chiamati a spronare la comunità ad un salto epocale: il passaggio dalla carità fatta con animo superficiale ad una carità solidale, che coinvolga in prima persona le persone e le istituzioni, che oltre ad aiuto materiale sia anche condivisione.

“Nella preghiera eucaristica – diceva il Vescovo di Molfetta mons. Tonino Bello (morto nel 1993) – ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell’uso corrente, come ad esempio l’espressione “nuove povertà”. La frase è questa: “Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli…”.

Essa ci suggerisce tre cose diceva mons. Bello. Anzitutto che, a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli “occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono “provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle Diottrie. Resi strabici dall’egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che “rende” in termini di produttività.

Sono così vittime di quel male oscuro dell’accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell’interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità – secondo mons. Tonino Bello – di implorare “occhi nuovi”.

Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all’improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d’attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre. Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa diceva don Tonino. Oltre alle miserie nuove “provocate” dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono “tollerate”.

Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch’esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia.

Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l’uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi.

Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione. E, infine, concludeva don Tonino, ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono “rimosse”. Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare.

La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: “Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di “aggredirle”. Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l’olocausto dei valori ambientali, sull’altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari. Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra.

I popoli della fame uccisi dai detentori dell’opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi.

Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott’acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema.

Occorre chiedere “occhi nuovi”. “Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore”.

A 16 anni di distanza dalla sua morte vogliamo ricordare cosi, mons. Tonino Bello, vescovo degli ultimi e dei sofferenti con la sua preghiera originale e speciale che, ancora oggi, ci deve far riflettere seriamente sul problema dei senza fissa dimora.

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