Cara Michela, accettare e cambiare. Sono stati questi i due fulcri della tua vita negli ultimi anni. Accettare di aver sbagliato, senza farti troppi sconti. Accettare (adattarsi scrivi tu) la vita detentiva, con le sue regole, le sue violenze, i suoi spazi, le sue persone e scoprire che nonostante tutto c’è qualcosa di buono.
Accettare la lontananza dalla famiglia, i rimpianti, il dolore provocato e ricevuto. Accettare il confronto con una vita così diversa, con persone tanto lontane da te all’apparenza. Accettare la solitudine e scoprire l’amicizia dietro le sbarre. Accettare dunque, ma insieme cambiare. Riscoprirti all’improvviso diversa da come eri quando facevi la madre e la moglie, quando eri abituata a dire di sì, quando ti alzavi prima del sole per andare al lavoro e continuavi a lavorare in casa per accudire la famiglia.
La pena, secondo la costituzione italiana e secondo le leggi che regolano la vita prigioniera dovrebbe proprio aiutare a compiere un percorso di cambiamento: dall’illegalità verso la legalità, verso nuovi modelli comportamentali della civile convivenza, partendo proprio dal riconoscimento delle proprie responsabilità più o meno gravi. Non sempre però è così, anzi spesso è il suo contrario.
Tu ci sei riuscita. Non so se grazie al carcere o nonostante esso, ma per te il tempo della pena è stato un cammino di trasformazione, senza che tu te ne rendessi conto, convinta che fuori la vita sarebbe ripresa come prima e aspettando con ansia il momento di riassaporare quella vita libera.
C’è voluto l’impatto con il fuori rimasto immobile, pietrificato nel ricordo di una donna madre e moglie che invece in quattro anni aveva sperimentato una nuova vita, nuovi rapporti, un nuovo sguardo su di sé. C’è voluta tutta la solitudine dopo la festa con i figli e il marito ancora più lontani proprio quando erano fisicamente più vicini. C’è voluto il dolore di sentire la tua casa estranea. C’è voluto tutto questo per renderti conto che in questi quattro anni sei diventata un’altra persona, più forte, più autonoma, più rispettosa di te stessa, desiderosa di relazioni significative e non solo formali. C’è voluto tutto questo per capire che nel carcere avevi trovato qualcosa di nuovo. Per scoprire che esisti anche oltre la famiglia, che esisti con la tua testa, il tuo cuore, i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri, i tuoi sogni, i tuoi silenzi. Che sei una donna nuova.
Una scoperta entusiasmante ma anche dolorosa e che ti chiede ancora uno sforzo. Essere diversi in carcere è più facile di quanto non sia esserlo fuori, quando si deve riprendere in mano la vita quotidiana con tutto ciò che ne è parte: il marito, i figli, la casa, gli amici, il lavoro, la vita libera. Un passo difficile, duro, anche violento. E tu oggi ti chiedi: quante possibilità ha di cambiare vita una donna a cinquant’anni e pure “pregiudicata”?
Finché c’è vita c’è speranza dice il proverbio e tu hai imparato che è così. Lo hai sperimentato in carcere, quando la vita sembrava finita, quando il buio era molto più forte della luce, quando il dolore copriva ogni altro sentimento. Sembrava impossibile ricominciare allora, così come sembra impossibile oggi. Ma quel che è impossibile è tornare a essere la Michela di prima. E tu lo sai.
Sei riuscita a trasformare il tempo della pena in un momento di crescita. Allo stesso modo saprai affrontare il tempo del reinserimento (a volte molto più duro della pena stessa) in un’occasione di rivincita della nuova Michela nata dietro le sbarre. Non da sola. Insieme alle persone che in questi anni ti hanno accompagnato nel tuo cammino e insieme ad altri nuovi amici che sapranno apprezzarti, sostenerti e confortarti. E magari, ma solo dopo, anche insieme alla tua famiglia, quando avrà imparato a conoscerti e rispettarti.
È vero sei pregiudicata e per molte persone significa che non meriti più nulla. Ma siamo in tanti fuori a credere che così non è e a ringraziarti per la tua testimonianza, il tuo esempio, il tuo coraggio. Perché per cambiare ci vuole davvero molto coraggio. Con affetto sincero.
Daniela de Robert
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