Le radici della carità – I. Radici nelle culture non cristiane, a cura di P. Pietro Balestrero, CM

da | Gen 1, 2009 | Carità | 1 commento

“Si tratti dello straripamento dell’Oder in Germania Orientale nel 1997 o dell’incidente minerario in Austria nel 1998, di un sequestro di ostaggi negli Stati Uniti o della fuga di un conducente dopo un incidente con feriti gravi a Parigi: il soccorso per il prossimo tribolato viene rivendicato pubblicamente. Il trascurarlo ha il carattere di uno scandalo pubblico, spesso con uno strascico giudiziario. La dedizione a chi soffre è un imperativo indiscusso del contesto culturale occidentale. Quando viene meno, la stampa e i media reagiscono con un grido di ribellione. La disponibilità ad aiutare è sulla bocca di tutti e spesso trova anche delle testimonianze impressionanti.” (Cordes, l. c., p.11)

Anche l’esistenza di innumerevoli organizzazioni di volontariato è un fenomeno che attesta della diffusa disponibilità al servizio.

Tuttavia la cultura della società moderna non si può dire senz’altro imbevuta dell’autentica carità cristiana: perciò il compito dei cristiani di trasmettere in essa la cultura della carità cristiana non è affatto esaurito.

Un esame delle principali fonti della solidarietà dominante nelle cultura odierna ci disvelerà la sua diversità dalla carità cristiana.

Vogliamo considerare le radici della carità nel duplice aspetto di radici culturali (dottrinali, letterarie) e radici generatrici vive della carità. Dobbiamo anche distinguere nella carità le sue radici dai suoi frutti .

I. ORIGINE E SENSO DELLA PAROLA “CARITAS”

Cerchiamo preliminarmente di chiarire l’origine del termine e contemporaneamente chiariremo anche il concetto di carità che sta al centro di queste riflessioni. In questo prendiamo come guida la Sacra Scrittura.

“Per indicare le diverse forme dell’amore la lingua ebraica aveva un’unica espressione, aheb, che designa l’amore sacrale e profano, l’amore casto e quello impuro, la tenerezza familiare e la semplice amicizia.. Nella Bibbia questo termine indica per lo più l’amore di Dio per l’uomo e l’amore dell’uomo per Dio.” (Cordes, l. c., p.11)

Ma nella Bibbia troviamo anche un’espressione che indica inequivocabilmente un amore che è schiettamente ed unicamente spirituale, di volontà, ed è il verbo stesso “volere”. “Mi assalirono nel giorno di sventura, ma il Signore fu mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò, perché mi (= me) vuole bene (voluit me)” (S 17,20). “Si è affidato al Signore, lui lo scampi: lo liberi, giacché gli vuole bene (quoniam vult eum) (S 21,9). “Da questo saprò che tu mi ami (voluisti me) se non trionfa su di me il mio nemico.” (S 40, 12). Questa espressione è citata nel N.T. da Matteo (27,43): “E’ il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio, lo liberi lui ora, se gli (lo = Gesù) vuole bene (ei telei autòn, si vult eum)”. Questa espressione può sembrare arcaica, ma è usata ancora oggi dagli adolescenti innamorati. Non si vuole se non ciò (o colui)che si ama.

“Per tradurre questo concetto [di amore] i greci avevano a disposizione quattro diverse parole: agapàn, filèin, eran e stèrgein. L’ultimo termine citato, che indica i legami interni alla famiglia, non compare quasi mai nella Bibbia. Anche il termine eros, derivato da eran, non è mai citato nel Nuovo Testamento e solo pochissime volte nell’Antico: esso si associa infatti all’amore sensuale e sessuale. Restano così filèin, che designa l’amore familiare e amicale, e agapàn, che indica piuttosto un amore determinato dalla volontà e dalla scelta; in questo caso la sede dell’amore non è il cuore. Quando, perciò si parla di amore dei nemici, si usa il termine agapàn, non filèin; la scelta terminologica rende ragione del fatto che il comandamento dell’amore non deve essere accompagnato da un moto dei sensi.

La versione latina del Nuovo Testamento [che è stato scritto originariamente in greco ] traduce agapàn con diligere e filèin con amare. Per il sostantivo agape ci si sarebbe quindi aspettati l’equivalente latino dilectio. Invece al posto di questo si trova nella maggior parte dei casi il termine caritas (90 contro 24).

Caritas deriva da carus, che significa “caro”, in tutti e due i sensi della parola, quello proprio e quello traslato. Si parla quindi di un “costo della vita caro”, come in latino della “caritas annonae” . Qui però interessa il senso traslato. In ogni caso caritas e amor non sono sinonimi. Cicerone ordina la caritas ai genitori, alla patria e agli uomini importanti; l’amor, invece, al coniuge, ai figli, ai fratelli e alle persone care.

Caritas ha quindi una connotazione razionale [di volontà], mentre amor indica l’amore emozionale e sensuale [di sentimento], ordinato quindi al cuore, ma per ciò stesso anche occasionalmente disordinato. In ogni caso Cicerone può dire: “Ut scias illum a me non solum diligi, verum etiam amari”, ovvero: “perché tu sappia che non solo egli mi è caro, ma che gli sono dedito con tutto il cuore”. Caritas nel senso biblico accentua dunque il carattere sobrio e volontario della dedizione al prossimo – eventualmente la “benevolenza” [nel suo significato etimologico = volere il bene] – mentre amor indica la dedizione precosciente o non razionalmente controllabile.” (Cordes, l. c., p. 31-32)

Alcuni testi dei Vangeli e di S.Paolo ci aiutano a capire ancora meglio il senso della caritas.

“Io vi dico: Amate (agapàte, diligite) i vostri nemici” (Mt 5,43): evidentemente anche con la naturale avversione del sentimento, che inclina invece a rifiutarlo.

“Vi dò un comandamento nuovo: amatevi (agapàte, diligatis) gli uni gli altri; come io vi ho amato (egàpesa, dilexi), così anche voi amatevi (agapàte, diligatis) gli uni gli altri” (Gv 13,34 ss): Cristo ci ha amati anche con amore divino, che non può essere sensibile

. “Chi ha i miei comandamenti e li mette in pratica, questi mi ama (o agapòn, diligit)” (Gv 14,21): non è richiesto altro se non l’osservanza dei comandamenti per garantire amore autentico.

“Nessuno ha amore (agàpen, dilectionem) più grande di colui che dà la vita per i suoi amici (fìlon)” (Gv 15,13): non è questione di sentimenti ma di dono totale.

“Sopportatevi a vicenda con amore (en agàpe, in charitate)” (Ef 4,2): il sopporto è per sua natura uno sforzo contro la ripugnanza verso chi ci infastidisce.

Di quale tipo è invece la “carità”, o meglio solidarietà, che si trova al di fuori del cristianesimo? Vediamolo nell’umanesimo di tutti i tempi, nel buddhismo, induismo, islamismo, ed ebraismo.

II. RADICI CULTURALI DELLA CARITÀ’ NEL MONDO PRECRISTIANO E NON CRISTIANO

L’umanesimo egizio, greco-romano e moderno.

“E’ per lo meno superficiale il giudizio secondo il quale le civiltà precristiane conoscano soltanto la violenza e la crudeltà. Anche in esse emergono, sia pure a sprazzi, scintille di quella esigenza della carità che testimoniano della legge interiore che l’azione divina suscita in tutti gli uomini.” (M Sbaffi, metodista, Carità in Nuovo Dizionario di Spiritualità, ed. Paoline, p.138)

E’ la carità, con i suoi frutti, che lo Spirito Santo suscita in tutti i cuori ben disposti, anche pagani o, al limite, atei. La radice che la genera è unica: si trova nell’unico Dio-Carità.

“Tra le antiche civiltà è senza dubbio quella egiziana che ha avuto una più alta idea umanitaria: uguaglianza nella giustizia, diritti alle donne e ai bambini, diritti agli schiavi, assistenza dovuta ai miseri. Soprattutto il culto della divinità era legato alla assistenza ai poveri, quasi preannunzio della carità di Cristo. … Ai tempi in cui Davide regnava in Israele, sotto la XXI dinastia (1085-950 a. C.), nell’iscrizione del gran sacerdote di Amon, Bakenkhonsua, troviamo un linguaggio che riflette la rivelazione biblica del Pentateuco: “Fui un padre per i miei subordinati, perché ho istruito i loro giovani, ho porto la mano agli infelici, ho assicurato l’esistenza di coloro che sono nel bisogno. Non ho generato terrore nei miei sevi, ma fui per loro un padre; ho assicurato i funerali a chi non aveva eredi, un feretro a chi non possedeva nulla. Ho protetto l’orfano che mi implorava ed ho preso nelle mie mani gli interessi della vedova.” Questo spirito di carità si ispirava al pensiero della divinità che mette nel cuore degli uomini la conoscenza della sua legge ed all’idea di una risurrezione dopo la morte nella quale chi avrà agito bene riceverà il suo premio.

Se nel mondo greco-romano non mancano esempi di carità, dobbiamo osservare che si tratta quasi sempre di uno scambio di interessi, di una filantropia nella quale il singolo o la comunità ricercano il proprio vantaggio: Senofonte, esortando Eracle, pone in bocca alla Virtù queste affermazioni: ‘Chi desidera la protezione degli dei, deve essere pio nei loro riguardi; chi vuole essere amato dagli amici, deve far loro del bene; chi vuole essere onorato dalla città, deve servirla; chi vuole essere ammirato da tutta la Grecia, deve beneficarla; chi vuole raccogliere frutti abbondanti da un terreno, deve coltivarlo’. Lo stesso Senofonte fa dire da Iscomaco alla sua giovane moglie: ‘Se Dio ci darà dei figli, dobbiamo educarli meglio che sia possibile. E’ nostro interesse, di tutti e due, assicurarci dei compagni di lavoro, sostegno della nostra vecchiaia, che siano i migliori possibili’.

Inoltre, nel mondo greco-romano, il significato cristiano della carità verso i poveri è completamente assente. Il povero è considerato un danno per la città e per l’umanità. Aristotele affermava che la povertà è ‘la sorgente delle sedizioni e dei crimini’. Se il povero viene soccorso, non è per amore ma per neutralizzare il pericolo che esso costituisce nel vivere associato. Scrive uno studioso [H.Bolkestein] nei confronti della beneficenza e dell’assistenza ai poveri nell’antichità precristiana: ‘C’erano in Grecia molte antiche fondazioni che avevano per fine di soccorrere alcuni gruppi di abitanti di una città; ma i poveri, in quanto tali, non sono mai oggetto di questa beneficenza’” (Sbaffi, l. c., p. 138-139)

“L’ethos dell’antichità voleva che la convivenza umana fosse ordinata secondo l’ideale della giustizia (non dell’amore). Gli antichi conoscevano certamente l’atteggiamento e l’azione della misericordia (eleos); ma essa veniva intesa come commozione interiore, non come disposizione per il cittadino umanamente maturo. L’etica stoica di conseguenza annoverava la compassione tra le malattie dei sensi, contro cui occorreva agire …

Il prendersi cura dei poveri e dei miserabili era una cosa estranea per i Greci e per i Romani, padri della cultura umanitaria nel cosiddetto primo mondo. Le persone bisognose non stanno affatto sotto la protezione degli dei. Il dio supremo dell’Ellade, Zeus, è chiamato “amico degli stranieri”, ma mai “amico dei poveri”. L’assistenza statale agli invalidi era sconosciuta [Gli spartani scagliavano da una rupe gli handicappati]. Chi fa qualcosa di buono per gli altri svolge un servizio per la comunità, ma non per chi vive di stenti; garantisce infatti l’ordine pubblico. La distribuzione di cereali garantiscono celebrità e grande fama; esse si rivolgono ai cittadini, ma non agli affamati.” (Cordes, l. c., p. 43)

In epoca moderna, a somiglianza degli antichi stoici, anche il filosofo Immanuel Kant rifiuta la compassione come impulso all’agire. Friedrich Nietzsche poi la considera patologica.

“Contro le apparenze si deve dunque constatare che il comandamento dell’amore non è il frutto di una filantropia secolare: esso è cresciuto sul terreno biblico.” (Cordes, l.c., p.43)

Il buddhismo

“Per quel che concerne il concetto di carità il buddhismo… ha un posto tutto particolare fra le grandi religioni non cristiane. Basti questa sola citazione: ‘Non c’è nulla di più potente della maitri [= benevolenza, amicizia]. Mai l’odio ha estinto l’odio. La benevolenza ha estinto l’odio. Questa è la legge eterna.’” (Sbaffi, l. c., p.139)

“La benevolenza amichevole (maitri), cioè la bontà piena d’amore, abbraccia tutti gli esseri buoni e cattivi, gli spiriti nobili e quelli bassi, sapendo che siamo tutti compagni di viaggio in questo girotondo delle esistenze e siamo tutti sottomessi alla stessa legge della sofferenza; la compassione (karuna) fa uscire dall’egoismo, che chiude gli occhi sulla sofferenza del mondo, e fa abbracciare tutti gli esseri, specialmente quelli più sofferenti e infelici, in un sentimento di pietà profonda, e induce a interessarsi di essi affinché possano giungere alla ‘liberazione’ dalle loro sofferenze, e cioè all’illuminazione e al nirvana. Alla base dell’esercizio di queste virtù c’è l’utilità che esse hanno per il raggiungimento dello scopo ultimo che il buddhismo si prefigge: il raggiungimento del nirvana.” (G. De Rosa, Cristianesimo, Religioni e Sette non cristiane a confronto, ed. Città Nuova, p. 170)

“I motivi ispiratori che animano il buddhsmo si differenziano però da quelli della carità cristiana in quanto, pur affermando entrambi l’esigenza dell’amare l’altro come noi stessi, l’io buddista è in un’ultima analisi un io che si cerca di annientare e di liberare dalla propria individualità: ‘La nessuna importanza dell’individuo è per il buddhismo un assioma fondamentale, come per il cristiano il valore infinito dell’anima umana.’ (H. De Lubac). Il valore positivo che il buddhsmo annette all’amore si deve al fatto che esso è una redenzione del cuore più che una sorgente di azione. Gli atti caritativi sono una tecnica che permette all’uomo di soggiogare il proprio io individuale.” (Sbaffi, l. c., p. 139)

“Il buddismo si propone di condurre l’uomo all’illuminazione. L’uomo la ottiene se osserva le quattro vie di questa religione. La prima di queste è il riconoscimento che ogni essere per i viventi significa dolore. Ignoranza e passione causano questo dolore. Per questo si devono far morire dentro di sé il desiderio e l’inquietudine, così da giungere alla “pace immobile” (“Nirvana”)…

Qualche anno fa incontrai a Singapore un catecumeno che desiderava convertirsi dal buddismo al cristianesimo. Era stato per molti ani monaco in un monastero buddista. Ci recammo insieme alla cella conventuale dove aveva abitato. Tra me riflettevo sul fatto che quest’uomo doveva avere molta esperienza nelle cose spirituali. Conosceva non solo le forme della meditazione orientale, ma anche quelle dei mistici occidentali come Tommaso da Kempis e Meister Eckhart. Gli chiesi allora. “Che cosa possono insegnare a noi cristiani i buddisti?”. Rispose: “Sono giunto alla convinzione che i buddisti possono insegnare a noi cristiani solo una cosa: non possiamo imparare nulla dal buddismo”. Ero sorpreso. Egli mi spiegò quindi che tra il cristianesimo e quella religione asiatica vi è una differenza fondamentale, che determina tutto il resto: chi è davvero e autenticamente buddista è convinto che l’uomo si liberi da sé; i cristiani invece credono che la liberazione sia loro donata. I buddisti gravitano intorno all’io; i cristiani sono chiamati ad aprirsi al Tu di Dio, che si fa incontro a noi in Cristo” (Cordes, l. c., p. 45-46). E’ infatti da ricordare che il buddhismo è detto impropriamente religione: “Il buddhismo ammette un Assoluto – che è precisamente il nirvana -, ma non ammette – o meglio, non può ammettere – un Dio personale… Buddha, se non si dichiarò personalmente ateo, si mostrò agnostico verso ogni forma di divino” (De Rosa, l. c., p. 178-179) Il buddhismo “non ha il concetto di Dio, né possiede un’adeguata concezione dell’anima” (C. Conio, Buddhismo in Nuovo Dizionario di Spiritualità, ed. Paoline, p. 113)

L’induismo

“Anche nell’induismo, uno delle tre grandi religioni dell’Asia, si conosce il dovere di aiutare chi si trova nel bisogno … La dedizione a chi soffre ed è nel bisogno nasce dal desiderio di incontrare Dio nel prossimo, così che l’amore del prossimo diventa una delle vie che conducono alla salvezza. Tutti gli esseri umani, che formano insieme una grande comunità e sono determinati dalla stessa legge che vale per tutti, possono così formare una “City of God in man” [Città di Dio nell’uomo].

La concezione filantropica della religione induista ha trovato una concreta espressione nella Ramakrishna-Mission, che è stata fondata nel 1897 in India e che possiede numerose istituzioni caritative, ospedali e orfanotrofi in Asia e nei paesi europei, oltre che negli USA” (Cordes, l.c. p.47).

Ma questa attività assistenziale non è originaria, propria dell’induismo: è già frutto del contatto con il cristianesimo avvenuto nel secolo XIX . “Esso fu caratterizzato dalla creazione in India di scuole, di università, di ospedali e altre opere di carità e di promozione sociale e per l’evangelizzazione delle caste basse, dei paria e degli aborigeni. … L’indù apprezza il cristianesimo e lo ammira per la sua morale, per le sue attività filantropiche, per il suo impegno per la giustizia sociale, per la cura che ha dei malati e dei poveri, tanto che la Ramakrishna-Mission ha cercato di imitare i cristiani, creando orfanotrofi, ospedali, scuole e opere sociali …” ( De Rosa , l. c., p.148, 152)

“Indubbiamente anche in questo caso non si dovrebbe troppo frettolosamente far coincidere il comandamento cristiano dell’amore con la dedizione dell’induista al prossimo, procedendo ad una sbrigativa appropriazione dell’induismo da parte del cristianesimo. Quando si opera il confronto del cristianesimo con l’induismo si devono tenere nel debito conto non solo le differenze religiose e culturali, ma soprattutto quelle antropologiche. … Nelle religioni asiatiche il Divino ” non si pone all’uomo dall’esterno, ma deve essere da lui ricercato sulla base del proprio essere umano [in una forma di immanentismo]. Dinanzi al Divino l’uomo e il cosmo sbiadiscono fino a perdere ogni importanza. Individualità [persona] e valore di sé vengono annullati. Tutto ciò trova espressione nell’immagine che l’induismo ha dell’uomo.

Quanto sia insignificante ogni individualità quanto di essa si possa fare a meno, è cosa che emerge in modo esemplare in una leggenda induista. Essa narra dell’incontro tra un giovane uomo che ha la conoscenza della liberazione [= un “santo”], e Indra, la grande divinità creatrice. I due si intrattengono parlando tra loro nel palazzo celeste di Indra, quando il santo improvvisamente scoppia a ridere, “Perché ridi?” chiede Indra. “Le formiche, le formiche”, risponde indicando una fila di formiche che si muovono sul pavimento di marmo del palazzo. Poiché Indra non capisce, il santo spiega: “Ognuna di queste formiche è stata Indra e tornerà a essere Indra”.

In questa leggenda si trova un intero universo dell’esperienza della realtà propria delle religioni orientali, della loro visione del mondo e dell’uomo. Essa insegna che l’individuo e il suo destino, la felicità umana e la salvezza, sono in definitiva orribilmente irrilevanti.” (Cordes, l.c. pp 47-49). Il prossimo è dunque un essere senza importanza.

“Manca nell’induismo la carità, non nel senso che gli indù non amino le altre persone e gli altri esseri viventi (il rispetto per la vita, sia delle persone, sia di tutti gli esseri viventi, è una caratteristica dell’induismo), ma nel senso che la ricerca della salvezza è un fatto individuale, frutto unicamente dello sforzo di ognuno: nessuno può fare nulla per gli altri, e vivere per gli altri, spendendo la propria vita per loro, non ha senso. Ognuno ha il suo destino prestabilito dal suo karma e non si può far nulla per cambiarlo. Per tale motivo, per l’induismo la perfezione consiste nella realizzazione di se stesso (sadhana) mediante la propria identificazione con l’Assoluto, mentre per il cristianesimo la perfezione consiste nella carità, cioè nel dono pieno di sé a Dio e agli altri, nel vivere non per sé, ma per Dio e per gli altri fino al sacrificio di se stessi. … Questo spiega la durezza – incomprensibile per un cristiano – della divisione in caste. Manca infatti, nell’induismo, il concetto che ogni uomo è prossimo, è fratello di tutti gli uomini, è uguale a tutti gli altri uomini, quale che sia la loro condizione sociale o spirituale. Il concetto di prossimo – e quindi la carità – è limitato alla casta: di qui l’umiliante e spesso terribile condizione delle caste inferiori e soprattutto degli intoccabili (paria) (De Rosa, l. c. p 157)

Inoltre le divinità non hanno amore per l’uomo, sono esigenti dei loro doni e delle loro stesse vite. Tagore ha poesie tragiche che riflettono questa avidità, come quella dal titolo “Il boccone di Dio”, nella quale il dio delle acque ingoia un bambino a lui offerto ed anche il bramino che si è immerso in suo soccorso: la poesia termina col verso desolato: “Il sole tramontò a settentrione.” (cfr Tagore, Kotha o Kahini, (Parole e Storie), Book Editore, p 122)

L’islamismo

“L’islam non è la religione dell’amore. … Nel Corano si parla anche dell’amore di Dio verso gli uomini, ma “l’amore di Allah è soltanto per i ‘credenti’ e non per i ‘negatori’, che sono in primo luogo gli idolatri e poi anche gli ebrei e i cristiani, dichiarati in maggioranza ‘empi’ e bestemmiatori, perché danno un figlio a Dio!

Tuttavia l’assoluta trascendenza di Allah impedisce che tra Dio e i ‘credenti’ si stabilisca un rapporto d’intimità profonda. Allah ha pietà e clemenza per la debolezza degli uomini peccatori, che si pentono delle loro colpe e credono nel messaggio che Egli trasmette loro per mezzo del suo messaggero, Muhammad … ma Allah non entra in comunione con gli uomini … A loro volta gli uomini hanno fiducia in Allah e si abbandonano a Lui; ma non possono entrare in comunione di amore con Lui, né in questa vita né nell’altra. L’amore di Allah non è perciò della stessa natura della carità cristiana, virtù teologale, che è partecipazione all’agape divina. L’Islam ignora la divinizzazione dell’uomo e la realtà del soprannaturale. Il Paradiso infatti consiste non nell’unione con Dio, ma nel godimento di beni molto simili a quelli di questo mondo, anche se la descrizione della felicità del Paradiso fatta dal Corano va intesa, probabilmente, in senso simbolico” (G.De Rosa, in Religiosi in Italia, CISM , nr 314 (1999), p.174*-175*)

“L’islamismo, pur essendo radicato sul terreno religioso ebraico, non ne ha percepito la predisposizione alla storicizzazione del rapporto dell’uomo con Dio, cioè degli interventi di Dio nel tempo. Il rapporto uomo-Allah è quindi in termini di infinita distanza. La creatura dinanzi ad Allah è come nulla. Fra l’uomo ed Allah vi è un abisso che anche la contemplazione mistica non riesce a colmare. L’idea cristiana dell’Iddio fonte di amore è quindi completamente assente.” (Sbaffi, l. c., p. 140)

Per conseguenza, anche per quanto riguarda l’amore del prossimo siamo lontani dalla natura dell’agàpe cristiana e dal suo essere rivolta verso tutti gli uomini, compresi i nemici. Infatti la solidarietà vigente tra i musulmani è ristretta nell’ambito “della comunità dei credenti” (Umma), cioè dei musulmani.

“Consapevole di appartenere alla ‘migliore comunità (Umma) mai suscitata fra gli uomini’ (Corano 3,110)… ogni musulmano ricorda sempre la raccomandazione divina: ‘Afferratevi insieme tutti alla corda di Dio e non disperdetevi’ (3,103). Non dice forse un hadith [detto di Maometto riferito fuori del Corano] che ‘ tutti i credenti sono fratelli’? Difatti Maometto avrebbe anche detto: ‘Nessuno tra voi sarà veramente credente finchè non amerà per il suo fratello ciò che ama per se stesso’, aggiungendo in un altro hadith: ‘Non siate gelosi, non offrite un maggior prezzo sulla vendita degli uni e degli altri, non odiatevi, non voltatevi reciprocamente le spalle, non fate vendite a scapito della vendita di un altro: siate uniti come fratelli. Il musulmano è fratello del musulmano: non lo opprime, non lo abbandona, non gli dice il falso, non lo disprezza. Tutto, nel musulmano, è sacro per un altro musulmano: il suo sangue, il suo bene, il suo onore’” (M.Borrmans, Islamismo in Nuovo Dizionario di Spiritualità, ed. Paoline, p. 775)

“L’elemosina (zakàt) – terzo pilastro dell’islam — vuole inculcare il senso della cura del povero [musulmano]. Col tempo è divenuta un’imposta legale e obbligatoria, ma i pii musulmani hanno cura di praticare l’elemosina personale e volontaria (sadàka)” (De Rosa, l. c., p 692).

“La zakàt è paragonabile alle decime dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Secondo il Corano (9,60) le elargizioni sono destinate ai ‘poveri e ai bisognosi e agli incaricati di raccoglierle, e a quelli di cui ci siam conciliati il cuore, e così anche per riscattar gli schiavi e i debitori, e per la lotta sulla Via di Dio [jihad] e pel viandante’. La zakàt è considerata un impegno imposto da parte di Dio. Per suo mezzo va ridotta la differenza tra ricchi e poveri e nell’umma [non universalmente] va assicurato un sufficiente tenore di vita ai nullatenenti e ai bisognosi.” (G.Risse, Zakat in Nuovo Dizionario delle Religioni, ed. San Paolo, p 1059)

L’ebraismo

“Nell’orizzonte della rivelazione biblica è più difficile far emergere la paternità letteraria del comandamento dell’amore. Qui si pone la questione se questo comandamento ha le sue radici nell’Antico Testamento; più precisamente ci si chiede se anche senza le parole e le azioni di Gesù esso sarebbe venuto fuori. L’originalità della sua istituzione è ancor oggi oggetto di discussione, tanto più che Gesù, per formulare il suo comandamento fondamentale, cita l’Antico Testamento.

Possiamo sostenere che l’ebraismo accompagna sulla via che porta alla retta interpretazione del duplice comandamento. Ma solo Gesù Cristo permette di comprendere pienamente il suo significato. Solo a partire da lui esso non si riduce a puro impegno umanitario: solo la sua persona gli garantisce la fonte che dona la capacità dell’amore [soprannaturale] di Dio” (Cordes l. c., p.49)

I due contenuti del comandamento dell’amore si trovano già in numerosi passi dell’Antico Testamento; ma è solo Gesù che li lega così indissolubilmente insieme da formarne uno solo.

Tags:

1 commento

  1. antonio.

    Ma come ti permetti di dire che nell’imduismo non c’e’ il precetto dell a carita, io sono un b rahmin ve ed un Guru indu’ e non è affattto vero che abbiamo copiata voi il precetto dell’amore e
    della carita esiste da millenni.

    Rispondi

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

VinFlix

VFO