Passato e futuro dello spirito vincenziano (seconda parte) #famvin2024

da | Nov 7, 2024 | Famvin 2024, Formazione vincenziana | 0 commenti

Riflessioni sui temi che saranno affrontati nell’incontro della Famiglia Vincenziana a Roma.
Periodicamente vi presenteremo una riflessione su uno dei temi legati all’incontro della Famiglia Vincenziana che si terrà a Roma dal 14 al 17 novembre 2024.

 

La seconda parte dell’articolo analizza l’evoluzione delle istituzioni vincenziane dopo la morte di San Vincenzo e il loro rapporto con i cambiamenti storici, come la Rivoluzione francese e l’ascesa dell’industrializzazione. Frederic Ozanam è messo in evidenza per il suo lucido approccio alla questione sociale, incentrato sulla lotta tra opulenza e povertà, e per il suo appello ai cristiani affinché optino per i poveri. Ozanam sosteneva che la carità dovesse essere integrata dalla giustizia per affrontare le cause strutturali della povertà, anticipando quella che sarebbe poi diventata l'”opzione preferenziale per i poveri”. Tuttavia, la Chiesa e le istituzioni vincenziane mantennero in gran parte una posizione difensiva, concentrandosi sulla santità personale e sull’ordine gerarchico, che limitò la loro risposta al cambiamento sociale. È riconosciuto che le missioni vincenziane continuarono il loro lavoro in varie regioni del mondo, anche se con atteggiamenti che non sempre riflettevano pienamente la spiritualità originale di San Vincenzo.

Passato e futuro dello spirito vincenziano

2. Gli sviluppi successivi e la crisi di medio termine

Le tre istituzioni che avrebbero incarnato lo spirito di San Vincenzo nella storia successiva durarono centotrenta anni dopo la morte del fondatore, nel Paese in cui erano nate. La Rivoluzione francese pose fine alla Congregazione della Missione, alle Figlie della Carità e alle Confraternite della Carità in modo sommario e per decreto. Anche la Congregazione della Missione e le Figlie della Carità furono ripristinate per decreto qualche anno dopo. Le Dame dovettero attendere un altro mezzo secolo prima di essere ripristinate da padre Etienne. Oggi le tre istituzioni godono di un’espansione più ampia in tutto il mondo rispetto a qualsiasi altro secolo precedente.

Il solo fatto di una forte crescita numerica parlerebbe in linea di principio a favore della legittimità dell’esperienza cristiana di San Vincenzo. La spiritualità di San Vincenzo sarebbe senza dubbio solidamente cristiana; sarebbe, in altre parole, un’interpretazione del Vangelo molto legittima e storicamente legittimata. Legittima, da un lato, e ricca, dall’altro, una ricchezza che sarebbe dimostrata dal suo potere di attrazione per tanti battezzati, clero e laici, nel corso di tre secoli. Flessibile e adattabile ai cambiamenti dei tempi e, per quanto possiamo vedere, suggestiva e ispiratrice per questi tempi della Chiesa e del mondo. Il numero di battezzati che oggi si appellano esplicitamente a San Vincenzo come ispirazione per la propria vita cristiana supera il milione (diciamo “battezzati” perché ci sono anche quelli di altre chiese). Cfr. Vincentiana, 4-5, 1994, pp. 214, 220). Vale a dire, poco più di uno ogni mille cattolici.

Pochi anni dopo la Rivoluzione francese, per chiunque non volesse rimanere cieco e continuare a desiderare le presunte glorie dell’Ancien Régime, doveva essere ovvio che la rivoluzione politica e quella economico-industriale stavano costringendo la Chiesa a ripensare la sua vecchia missione in termini nuovi e a ridefinire il suo posto nella nuova società. Frederic Ozanam non è stato l’unico a tentare di farlo, né la Francia è stato l’unico Paese in cui si è tentato di farlo, ma non sembra esagerato dire che Ozanam è stato uno di quelli che ha visto il problema per primo e lo ha definito con maggiore chiarezza. Si veda questo suo testo del 1836:

La questione che agita il mondo oggi non è né una questione di persone né una questione di forme politiche, ma una questione sociale; la lotta di coloro che non hanno nulla e di coloro che hanno troppo, il violento scontro tra opulenza e povertà, che fa tremare la terra sotto i nostri piedi. Il dovere di noi cristiani è di interporci tra questi nemici inconciliabili… e di fare in modo che l’uguaglianza regni il più possibile tra gli uomini…, e che la carità realizzi ciò che la giustizia da sola non potrebbe fare (Lettres, I 239).

Qui sta, in tutta lucidità, l’analisi della nuova società. Non si trattava più di una società “organica” come quella antica, ma di una società non solo divisa in classi (come quella antica: i latifondi), ma in classi positivamente contrapposte tra loro; non per motivi politici o religiosi (come talvolta lo era quella antica), ma per l’ingiusta distribuzione della ricchezza nazionale. Questo accadeva anche nella società antica, ma era facilmente legittimato da idee filosofiche, politiche e persino religiose (rassegnazione cristiana, volontà di Dio…), idee che furono spazzate via senza pietà dal vento rivoluzionario. L’ingiustizia appariva ora in tutta la sua crudele nudità, senza alcuna copertura ideologica per nascondere la sua disumana vergogna.

Ozanam ha anche descritto molto lucidamente il ruolo dei cristiani nella nuova società; un ruolo, ovviamente, per i credenti in Gesù Cristo, di mediatori di pace nella lotta sociale. Ma la soluzione offerta non è la riconciliazione a tutti i costi che lascerebbe intatte le strutture dell’ingiustizia, bensì la riconciliazione costruita sul fondamento dell’uguaglianza e della giustizia “per quanto possibile tra gli uomini”. Ma c’è di più: la carità deve intervenire non solo per alleviare (o nascondere) le devastazioni dell’ingiustizia, come ha sempre fatto, ma proprio per andare oltre, per realizzare “ciò che la giustizia da sola non potrebbe fare”.

Ora, secondo Ozanam, il ruolo di intermediazione del cristiano nel tentativo di risolvere l’ingiustizia strutturale della società non avviene da una posizione, diciamo così, di neutralità, ma da quella che oggi chiameremmo un’opzione preferenziale per i poveri, che egli esprime con una frase vigorosa: “Andiamo dai barbari”, verso

questo popolo che non ci conosce; aiutiamolo non solo con le elemosine che legano gli uomini, ma anche con la creazione di istituzioni destinate a liberarlo e a renderlo migliore… Andiamo verso i barbari (N.d.T.: parallelamente a quanto fece la Chiesa alla fine del decadente Impero romano)… per renderli veri cittadini e renderli degni e capaci di possedere la libertà dei figli di Dio (Le correspondant 10 febbraio 1848, pp. 412 ss.).

La frase sconvolse fortemente, come non avrebbe potuto farlo, i cattolici benpensanti. Ma Ozanam non diminuì affatto la forza della sua espressione quando continuò a spiegarne il significato in una lettera a un amico:

Dicendo “andiamo dai barbari” chiedo che invece di sposare gli interessi di una borghesia egoista, ci si occupi del popolo. È nel popolo che vedo abbastanza resti di fede e di moralità per salvare una società che le classi superiori hanno già perso (Lettres, III, p. 379).

E ancora più esplicitamente in una lettera al fratello sacerdote del 23 maggio 1848:

Invece di cercare l’alleanza con la borghesia sconfitta, affidiamoci al popolo, che è il vero alleato della Chiesa, povero come lei, abnegato come lei, benedetto con tutte le benedizioni del Salvatore.

Questo esprimeva in tutte le sue lettere qualcosa che solo più di 120 anni dopo sarebbe stato affrontato in modo sistematico dal pensiero teologico (per essere precisi, dalla teologia della liberazione), e che nella coscienza generale della Chiesa sarebbe stato conosciuto dopo il Concilio Vaticano II come l’opzione preferenziale per i poveri.

Una tale scelta, come quella espressa da Ozanam, ha qualcosa a che fare con la posizione fondamentale di San Vincenzo de’ Paoli? Certamente, e in modo molto radicale, perché egli attribuisce tale opzione, come modello di comportamento per il suo popolo, a Gesù Cristo stesso:

Vedete, fratelli miei, come la cosa principale per nostro Signore fosse lavorare per i poveri. Quando parlava agli altri, lo faceva come se fosse di passaggio (XI, 56).

Con una così radicale armonia di spirito tra i due, non sorprende trovare molte altre somiglianze nei dettagli. Si noti il forte sapore “vincenziano” di questo testo di Ozanam:

I poveri li vediamo con gli occhi della carne; sono lì e possiamo mettere le dita nelle loro ferite; i segni della corona di spine sono visibili sulla loro fronte… Voi siete l’immagine sacra di quel Dio che non vediamo, e poiché non possiamo amarlo altrimenti, lo ameremo nelle vostre persone… Voi siete i nostri padroni e noi saremo i vostri servi (Lettres, I p. 243).

Forse c’è una ragione storica o una scusa per questo, ma bisogna ammettere pallidamente che non c’è nulla negli scritti ufficiali della Congregazione della Missione o delle Figlie della Carità per tutto il XIX secolo che si avvicini alla chiarezza dell’analisi di Ozanam o alla purezza della sua sensibilità vincenziana applicata ai tempi moderni. Rosalie Rendu, che fu anche l’ispiratrice e l’animatrice del primo lavoro per i poveri di Ozanam e dei suoi compagni alle origini della Società di San Vincenzo de’ Paoli, non fu compresa dalle autorità di entrambe le istituzioni.

Forse, come abbiamo detto, c’è una ragione storica per questa mancanza. Si potrebbe pensare, ad esempio, che i superiori maggiori avessero già abbastanza da fare per ricostruire l’edificio di entrambe le istituzioni, gravemente danneggiato dalla Rivoluzione francese e dalle sue conseguenze. Questo fu senza dubbio ciò che guidò l’azione di padre Etienne, contemporaneo di Ozanam, per tutta la sua vita, e che egli portò avanti con indubbio successo.

Padre Etienne, uomo di grande acume pratico, era ben consapevole che i nuovi tempi offrivano una grande opportunità storica per rinnovare e aggiornare le strutture della sua Congregazione:

Non c’è forse in questa nuova situazione un terreno totalmente nuovo sul quale la Società può liberamente progettare e ricostruire il suo edificio in condizioni molto favorevoli alla libertà dei suoi movimenti e allo sviluppo della sua attività? (Recueil des principales circulaires des supérieurs généraux de la CM., t. l, p. 399).

Lì c’erano, ben visibili, la situazione del presente storico e le possibilità per il futuro. Curiosamente, padre Etienne riteneva che il modo migliore per sfruttare queste possibilità fosse il ritorno letterale al testo delle Regole comuni, un ritorno che avrebbe garantito l’immutabilità storica della Congregazione:

La Compagnia non può essere soggetta ai cambiamenti e alle alternative che subiscono le istituzioni fatte dalle mani degli uomini; poiché le nostre Regole ci conducono alla pratica delle massime evangeliche, esse partecipano in qualche modo all’immutabilità del Vangelo stesso… Non si deve apportare il minimo cambiamento alle nostre Regole e Costituzioni, poiché esse possono essere osservate con lo stesso frutto e con la stessa fedeltà nel tempo presente come nei tempi passati (Recueil…, t. III p. 135).

I cambiamenti verso forme più democratiche di organizzazione sociale, che risultarono dalla rivoluzione del 1848 (la Seconda Repubblica), in cui la monarchia cadde per la terza volta in cinquant’anni, incontrarono la reazione di Ozanam:

Abbiamo accettato la repubblica non come un male dei tempi a cui rassegnarsi, ma come un progresso da difendere… La Provvidenza distrugge solo per costruire, e più rinnova la terra, più ci sembra che getti le fondamenta di un nuovo ordine (L’ere nouvelle, n. 16, 1° maggio 1848).

E qualche giorno prima:

Tutti concordano sul fatto che mai il dito di Dio è stato puntato su un evento umano come nella rivoluzione appena avvenuta… Ciò che ho imparato dalla storia mi dà il diritto di credere che la democrazia sia il termine naturale del progresso politico e che Dio vi conduca (ibid. n. 1, 1° aprile 1848).

Questo significava leggere i segni dei tempi in modo fedele e acuto. Ma non “tutti” erano d’accordo con la visione di Ozanam, né nella Chiesa né al di fuori di essa. Come potevano essere d’accordo i legittimisti monarchici o gli uomini di Chiesa con la nostalgia della passata alleanza tra il Trono e l’Altare? Padre Etienne, sebbene in una precedente circolare del gennaio 1849 avesse espresso qualche esitazione su come interpretare i recenti movimenti rivoluzionari, senza escludere una possibile azione della Provvidenza, finì per scrivere a tutta la Congregazione nel novembre dello stesso anno:

Il principio che agita i popoli, che porta le catastrofi nel mondo, è l’orgoglio e lo spirito di indipendenza. La causa di tutte le rivoluzioni, che rovesciano troni e imperi, si trova in questo detto che la Scrittura mette in bocca agli empi: non serviam, non mi sottometto… La base su cui poggia l’ordine sociale è il rispetto dell’autorità (Recueil…, t. 111, p. 141).

Egli applica la stessa idea di autorità alla Congregazione della Missione quando afferma che l’autorità “è il fondamento su cui poggia tutto l’edificio della Società” (Recueil… t. III p. 169). Si osa timidamente obiettare se non sia legittimo pensare che la base dell’edificio della Società non sia l’autorità, ma la sequela di Cristo nell’evangelizzazione dei poveri; e il principio costitutivo di ogni società, non il rispetto dell’autorità, ma la ricerca del bene comune.

È da tempo un luogo comune sottolineare che per tutto il XIX e gran parte del XX secolo la Chiesa ha adottato una posizione difensiva e ripiegata su se stessa di fronte all’ondata di nuovi modi di vita e idee che hanno invaso la società europea a partire dall’Illuminismo. Il segno più visibile e noto di questa posizione fu il Sillabo di Pio IX (che, tra l’altro, per la sua fama di uomo simpatico alle nuove correnti, era stato accolto con entusiasmo dagli elementi più aperti della Chiesa, tra cui lo stesso Ozanam, al momento della sua ascesa al soglio pontificio), che era un rifiuto frontale di tutto ciò che nelle idee o nei modi di comportamento sociale poteva essere definito moderno.

In questa posizione c’erano indubbiamente motivi e aspetti legittimi di salvaguardia dell’essenziale che dovevano essere mantenuti a tutti i costi, per evitare il pericolo molto reale di una dissoluzione amorfa dei valori cristiani fondamentali. Ma si è rivelato un atteggiamento di rifiuto forse troppo radicale e durato troppo a lungo. Solo con il Concilio Vaticano II la Chiesa uscì ufficialmente dai suoi quartieri d’inverno per tornare al mondo che doveva essere salvato, come Paolo VI espresse con tutta la densità e la precisione nel suo discorso conclusivo (n. 14). Egli chiese a se stesso e alla Chiesa: “Il Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa verso l’orientamento antropocentrico della cultura moderna?” E lui stesso rispose: “Deviato, no; tornato indietro, sì”. Il che equivale ad ammettere semplicemente due cose:

  • Prima del Concilio, la Chiesa aveva le spalle coperte dall’orientamento antropocentrico della cultura moderna.
  • La Chiesa non vede come una deviazione il ritorno a questo orientamento antropocentrico della cultura moderna, perché

il nostro umanesimo diventa cristianesimo, il nostro cristianesimo diventa teocentrico; tanto che possiamo anche affermare: per conoscere Dio è necessario conoscere l’uomo (n. 16).

È inutile aggiungere che le istituzioni di San Vincenzo non furono affatto un’eccezione a questa posizione generale di ritiro dalla nuova società e dal nuovo orientamento antropocentrico. Il carattere cristocentrico-antropocentrico dell’esperienza spirituale di San Vincenzo è stato sottolineato sopra. Diciamo onestamente se le seguenti parole di un altro Superiore Generale di poco successivo a Padre Etienne, Padre Fiat, sono davvero fedeli alla vera visione spirituale di San Vincenzo:

Il primo fine della Piccola Compagnia è la santificazione dei suoi membri, e questo deve essere il primo oggetto della nostra sollecitudine; tutti gli altri devono essere subordinati ad esso (4 dicembre 1879, lettera circolare ai superiori. La sottolineatura è ovviamente nostra).

In altre parole, un vero discepolo di San Vincenzo dovrebbe, secondo padre Fiat, evangelizzare i poveri, pensando prima di tutto alla sua santità personale. Un ritorno, dunque, all’egocentrismo (perché di egocentrismo si tratta, anche se “spirituale”), e un ritorno al teocentrismo (perché di questo parlavano gli scritti spirituali del XIX secolo quando parlavano di santità personale) del giovane Vincenzo.

Quello che scrive padre Fiat è compatibile con la visione veramente mistico-spirituale-cristiana del “lasciare Dio per Dio” di San Vincenzo de’ Paoli?

Non stiamo in alcun modo mettendo in dubbio la qualità vincenziana di padre Etienne o di padre Fiat. Entrambi si distinguono tra i Superiori Generali della Congregazione della Missione e delle Figlie della Carità per aver esercitato un’influenza molto forte e positiva sulla sopravvivenza e sulla crescita di entrambe le comunità. In gran parte viviamo ancora di ciò che ci hanno lasciato in eredità. Probabilmente sarebbe troppo chiedere, inoltre, che le due piccole Compagnie siano andate contro l’atteggiamento generale della Chiesa e dei grandi ordini religiosi. Le osservazioni critiche che abbiamo fatto si riferiscono piuttosto ai modi di espressione che nascono e finiscono per dare forma a certi atteggiamenti mentali che poi influenzano la vita.

Va anche aggiunto che le due istituzioni non percorsero interamente i sentieri del ritiro dal mondo che abbiamo indicato. Il mondo era anche l’Etiopia, il Vicino e l’Estremo Oriente, la federazione degli Stati americani, i sobborghi operai delle città industriali inglesi, gli innumerevoli manicomi, ospedali, lebbrosari e scuole popolari, dove missionari e suore continuavano a esprimere nella vita e nella pratica quotidiana il meglio della spiritualità del fondatore.

Gli atteggiamenti mentali di isolamento e di rifiuto del mondo avrebbero potuto terminare alla fine del XIX secolo in occasione della prima grande enciclica sociale di Leone XIII, che segnò una netta svolta della coscienza cristiana verso le dimensioni sociali e politiche della fede. Ma ciò non avvenne, come lamentò quarant’anni dopo l’autore di un’altra enciclica sociale, Pio XI. Non lo fece la Chiesa nel suo insieme, né lo fecero le istituzioni di San Vincenzo de’ Paoli nel loro insieme.

Jaime Corera C. M.
Fonte: Reavivemos el Espíritu Vicenciano: Semana de Estudios Vicencianos, XXII [Riaccendere lo spirito vincenziano: Settimana di studi vincenziani, XXII] (CEME, Salamanca, 1995).

Domande per la riflessione personale o il dialogo di gruppo:

  1. Come possiamo integrare efficacemente carità e giustizia nella nostra risposta cristiana alle ingiustizie strutturali di oggi?
  2. Quali sono i passi concreti che noi cristiani possiamo fare per metterci tra l’opulenza e la povertà, come ha fatto Frederic Ozanam?
  3. Come possiamo promuovere un’autentica opzione preferenziale per i poveri nelle nostre comunità, invece di offrire solo risposte palliative?
  4. Come possiamo ispirare le nostre comunità a essere veri costruttori di pace e mediatori nei conflitti sociali ed economici di oggi?
  5. Come possiamo lavorare oggi per costruire istituzioni e strutture che promuovano davvero l’uguaglianza e la dignità umana?


Cliccare sull’immagine seguente per accedere a tutte le informazioni sulla Seconda Convocazione della Famiglia Vincenziana, che si terrà dal 14 al 17 novembre 2024 a Roma, Italia:

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