Il testo “Passato e futuro dello spirito vincenziano”, scritto da padre Jaime Corera C.M., è stato presentato alla Settimana di Studi Vincenziani di Salamanca nel 1995. In questo saggio, Corera riflette sull’eredità di San Vincenzo de’ Paoli e sulle implicazioni future della sua spiritualità, affrontando sia il suo passato che la sua evoluzione verso il futuro. Fin dall’inizio, l’autore riconosce i limiti della sua analisi, osservando che una comprensione completa dello “spirito vincenziano” è difficile da raggiungere, a causa della complessità storica e della difficoltà intrinseca di prevedere con precisione il futuro. Nel corso del testo, Corera sottolinea la rilevanza di alcuni momenti della vita di San Vincenzo, in particolare le esperienze di Folleville e Châtillon nel 1617, che segnano una svolta nella vita del santo, portandolo a dedicarsi radicalmente all’evangelizzazione e al servizio dei poveri.
Il testo evidenzia come questo cambiamento personale di San Vincenzo de’ Paoli sia stato accompagnato da un’evoluzione verso la creazione di istituzioni stabili, come la Congregazione della Missione e le Figlie della Carità, dedicate al prolungamento della sua missione. Inoltre, Corera sottolinea che la spiritualità di San Vincenzo era profondamente cristocentrica, incentrata non solo sul Cristo glorificato, ma sul Cristo incarnato, vissuto tra i poveri e morto sulla croce. Questa spiritualità implicava una radicale imitazione di Cristo, incentrata sull’azione concreta verso i più emarginati della società.
Per quanto riguarda il futuro del carisma vincenziano, Corera avverte che sarà necessaria una costante conversione verso i poveri, non come opzione secondaria, ma come nucleo stesso della spiritualità vincenziana. Propone che l’adattamento ai tempi moderni sia cruciale se si vuole che lo spirito vincenziano rimanga rilevante in un mondo in continua evoluzione.
Sebbene siano passati quasi 30 anni dalla stesura di questo testo e la comprensione di ciò che è la Famiglia Vincenziana si sia evoluta in modo significativo da allora, crediamo che la riflessione di P. Corera sia ancora valida e attuale.
Biografia di Jaime Corera Andía, C.M.
Padre Jaime Corera Andía, C.M. (1933-2022), è stato un sacerdote spagnolo, membro della Congregazione della Missione, nato il 24 marzo 1933 a Pamplona, Navarra, e ordinato sacerdote il 29 giugno 1957. Fin da giovane ha mostrato una profonda vocazione al servizio dei più bisognosi, seguendo il carisma di San Vincenzo de’ Paoli.
Corera è stato un eccezionale studioso, teologo e pastore. La sua vita è stata segnata dal profondo impegno nella riflessione teologica e nella spiritualità vincenziana. Nel corso della sua carriera ha insegnato in diverse istituzioni, essendo professore presso la Facoltà di Teologia di Salamanca e presso la Facoltà di Teologia di Quito. Come formatore di nuove generazioni di vincenziani, ha contribuito in modo significativo allo studio di San Vincenzo de’ Paoli e del suo carisma. Tra le sue numerose pubblicazioni, spiccano le sue opere sulla spiritualità vincenziana, in cui ha cercato di collegare gli insegnamenti di San Vincenzo con le esigenze contemporanee.
A livello pastorale, padre Jaime Corera ha servito anche come cappellano in varie comunità e ha ricoperto importanti incarichi all’interno della Congregazione della Missione. In tutte le sue sfaccettature, si è distinto per la sua dedizione al servizio, la sua umiltà e la sua capacità di comunicare le ricchezze spirituali di San Vincenzo.
Corera si è spento il 19 aprile 2022, lasciando un’eredità duratura sia nella riflessione teologica che nell’impegno vincenziano verso i più poveri ed emarginati. La sua vita e la sua opera continuano a ispirare coloro che cercano di vivere il Vangelo da una prospettiva vincenziana, incentrata sull’amore per i poveri e sull’azione missionaria.
Questa prima parte racconta il processo di conversione di San Vincenzo de’ Paoli, che prima del 1617 non mostrava una piena dedizione ai poveri, nonostante i suoi contatti con le istituzioni caritative. La trasformazione di Vincenzo segue le sue esperienze a Folleville e Chatillon, dove adotta una missione di evangelizzazione e di servizio ai più emarginati. Nel corso della sua vita, il suo lavoro si allarga a varie classi di poveri, dai contadini ai malati di mente e ai rifugiati. Il suo approccio cristocentrico si concentra sull’umanità di Cristo e la sua visione ecclesiologica rompe con la gerarchia clericale tradizionale, dando vita a una Chiesa più missionaria e orientata ai poveri. La spiritualità di San Vincenzo, alla sua morte nel 1660, è caratterizzata dalla dedizione comunitaria, dall’imitazione di Cristo e dalla rottura delle alleanze tra Chiesa e potere politico.
Passato e futuro dello spirito vincenziano
Per meglio comprendere l’intenzione e i limiti di questo lavoro, segnaliamo subito il tono un po’ pretenzioso del titolo. Per cominciare, non ci sentiamo in grado di conoscere a fondo il passato del cosiddetto “spirito vincenziano”, né nella sua origine fondante (l’esperienza di San Vincenzo), né nella sua storia successiva fino ai giorni nostri; né siamo in grado di descriverlo in tutta la sua profondità. Per quanto riguarda il futuro, lo studio sociologico ci ha portato da anni alla persuasione che, mentre la conoscenza del passato è possibile (anche se fragile e parziale, oltre che fortemente condizionata dalla prospettiva dello studioso stesso), ogni prognosi sul futuro è, nel campo della storia, molto vicina alla follia, cioè praticamente priva di senso. Precisiamo pallidamente fin dall’inizio che la descrizione del passato dello spirito vincenziano che verrà tentata in questo lavoro avrà un carattere fortemente selettivo e molto sintetico. Per quanto riguarda il futuro, in questa sede non si tenterà alcun tipo di prognosi; ci limiteremo a indicare alcuni temi che ci sembrano indispensabili perché lo spirito vincenziano abbia un futuro significativo.
Un’ultima parola prima. Il termine “spirito” o “spiritualità” applicato alla personalità di San Vincenzo e alla sua influenza sulla storia successiva ci sembra un caso di etichetta inventata per altre cose e non molto appropriatamente applicata a questa. L'”esperienza” di San Vincenzo, l'”esperienza cristiana” di San Vincenzo o forse la “visione cristiana” di San Vincenzo sarebbero espressioni più appropriate per questo caso. In questo lavoro useremo indifferentemente l’una o l’altra, senza escludere “spirito” e “spiritualità”.
1. L’esperienza originale
Nella biografia di San Vincenzo prima del suo 37° anno di vita (1617) ci sono alcune informazioni certe che indicano un certo interesse personale per i poveri. Oltre ai dettagli della sua infanzia forniti da Abelly (1. 1, c. 2), notiamo la sua conoscenza della Confraternita dell’Ospedale della Carità durante il suo secondo soggiorno a Roma (X, 574), le sue visite all’Ospedale della Carità di Parigi (Abelly, 1. III, c. XI, sec. I), al quale fece una donazione di 15.000 lire nel 1611 (anche se da tutti gli indizi sembra che Vincenzo fosse solo un intermediario nella donazione (X, 25-27), il suo lavoro di catechesi tra i servi di casa Gondi e tra i contadini delle sue terre (X, 34 ss.).
Questi sono fatti certi, ma non attestano affatto una personalità di fede che è sempre stata, fin dall’infanzia (come Abelly vorrebbe farci credere), dedita ai poveri. Qualsiasi biografia di qualsiasi bambino cristiano o di qualsiasi giovane sacerdote rispettabile, in qualsiasi epoca, potrebbe fornirci dati simili.
Sebbene vi siano tra loro differenze più o meno importanti nella descrizione del processo che portò Vincenzo de’ Paoli a convertirsi dai modi un po’ vertiginosi, e certamente egocentrici, dei suoi primi anni di sacerdozio, praticamente tutti i biografi di San Vincenzo e gli studiosi della sua spiritualità concordano su due punti. In primo luogo, sulla data. L’anno 1617 segna, intorno alle esperienze di Folleville e Chatillon, la data decisiva per un radicale cambiamento di direzione nella sua vita. In secondo luogo, il cambiamento di rotta portò a una completa dedizione della persona e del sacerdozio all’evangelizzazione dei poveri.
Chi erano questi poveri? Poveri contadini, innanzitutto, e poi schiavi delle galere. Ma nel corso degli anni, e soprattutto grazie all’influenza delle Figlie della Carità e delle Dame, si sono diffusi poveri di ogni tipo: malati di mente, malati negli ospedali pubblici, bambini abbandonati, schiavi, emigranti interni ed esterni, soldati mercenari, artigiani e operai anziani senza lavoro e senza pensione, mendicanti, rifugiati e vittime della guerra, perseguitati cattolici e popolazioni rurali (Irlanda, Scozia, Ebridi), nativi del Madagascar…. C’erano altri poveri nella Francia di allora, persone che non erano ricche in alcun modo, che non appartenevano nemmeno a quella che oggi classificheremmo come classe media, né alta né bassa (per esempio, gli artigiani), persone che San Vincenzo non ritenne mai oggetto di dedizione né per sé né per gli uomini e le donne da lui ispirati. Al contrario, le persone assistite da San Vincenzo e dalle sue istituzioni avevano un carattere comune nella loro povertà, un carattere che oggi chiameremmo di emarginazione, un’idea molto vicina a quella che San Luigi intendeva con l’espressione “poveri indigenti”.
La conversione di San Vincenzo de’ Paoli all’evangelizzazione dei poveri fu, ovviamente, un’esperienza di fede del tutto personale e come tale la visse dal 1618 al 1625 facendo missione, con l’aiuto di occasionali compagni, nelle terre dei Gondi. Ma ben presto scoprì, su suggerimento e influenza della signora De Gondi, che un’opera di evangelizzazione dei poveri di vasta portata poteva essere portata avanti solo attraverso organizzazioni stabili e ben costituite. Questa scoperta si concretizzò nella fondazione della Congregazione della Missione (1625-1626), delle Figlie della Carità (1633), delle Dame della Carità (1634), e in altri tipi di organizzazioni meno strutturate create per casi particolari e di durata limitata (Macon, organizzazione dei soccorsi di guerra in Lorena, Piccardia, Parigi).
Anche se non fu così all’inizio, nemmeno nei primi anni, la visione di Vincenzo de’ Paoli, che iniziò concentrandosi su piccoli villaggi vicino a Parigi e poi si diffuse in tutto il regno di Francia, alla fine assunse una prospettiva mondiale. Anche in questo caso, il suggerimento o l’influenza provenivano da altrove (la Congregazione di Propaganda Fide: (III, 143). San Vincenzo si sentì obbligato ad accettarlo, come in tutte le sue opere, “per rispondere ai disegni di Dio” (ibid.). E sebbene uno dei motivi che lo spinsero a inviare il suo popolo oltre le frontiere dell’Europa fosse il timore che Dio ritirasse la fede dall’Europa “a causa dei nostri costumi corrotti” (III, 165-166), la nuova visione di portata universale era in perfetta armonia con l’intuizione originaria e centrale della sua spiritualità. Infatti, a quel tempo le povere moltitudini erano, come oggi, piuttosto fuori che dentro la corrotta Europa.
La conversione di Vincenzo de’ Paoli influenzò, ovviamente, tutti gli aspetti psicologici ed emotivi della sua personalità. Ma incise anche, e molto profondamente, sulla sua teologia, sul suo rapporto retorico e pratico con Dio. Già prima della sua conversione ai poveri, Berulle si era impegnato a smantellare il teocentrismo della sua pietà giovanile e dei suoi studi a Tolosa per orientarlo verso una visione cristiana nettamente cristocentrica (perdonate la ridondanza, ma in questo caso è utile). In altre parole, la sua visione della fede passa da una teologia (tutte le religioni ce l’hanno) a una cristologia (solo il cristianesimo ce l’ha, ed è proprio in questo che si differenzia dalle altre religioni).
Ma nel suo caso la sua cristologia è una visione centrata non sul Verbo incarnato glorificato alla destra del Padre, come in Berulle, ma su Gesù di Nazareth, nato da Maria, evangelizzatore dei contadini della Galilea e morto sulla croce. Il Cristo risorto e glorificato è anche per lui, senza dubbio, un oggetto di amorevole adorazione e di fede. Ma per dedicarsi a continuare la missione di Cristo sul modello di Cristo, non poteva che prendere come modello il Dio fatto carne e fatto storia, il Cristo che si rende presente nel mondo quando si incarna e che conclude la sua vita storica sulla croce. Per esempio: “Per essere una vera Figlia della Carità devi fare ciò che il Figlio di Dio ha fatto sulla terra” (IX, 34). E ai missionari: “Non c’è mai stata una compagnia il cui scopo fosse quello di fare ciò che nostro Signore è venuto nel mondo per fare” (XI, 323).
Anche la sua visione ecclesiologica dovette subire importanti revisioni di fronte alle esigenze della sua nuova vocazione. Il giovane Vincenzo aveva fedelmente assimilato l’ecclesiologia uscita da Trento. Ma questa ecclesiologia si era concentrata, in gran parte come reazione contro i protestanti, sugli aspetti della costituzione interna della Chiesa e aveva trascurato la sua proiezione missionaria. Ora, questo è l’aspetto decisivo per chi concentra la propria esperienza di fede sull’evangelizzazione di popolazioni contadine che, pur essendo battezzate, sono molto poco istruite nella fede, e ancor più per l’evangelizzazione di pagani che non hanno nemmeno sentito parlare di Cristo.
Nei documenti dogmatici di Trento, la figura del sacerdote è definita innanzitutto come uomo di culto, ministro dell’Eucaristia. Sebbene i documenti sulla riforma della vita del clero tenessero conto della dimensione pastorale del sacerdozio cattolico, nel complesso “dal Concilio è emersa un’immagine del sacerdote come uomo del sacro, isolato, più preoccupato di mettere in relazione gli uomini con Dio che di animare la vita comune della Chiesa” (L. Mezzadri, in Vincentiana, 1986, p. 325), cioè una visione nettamente teocentrica del sacerdozio.
E una visione della Chiesa, quella che è durata da Trento al Vaticano II, chiaramente gerarchico-clericale, in cui i laici sono poco più che membri passivi, destinatari della grazia e dei sacramenti. Ora, se imitare Gesù Cristo e continuare la sua missione nella storia significa “fare ciò che il Figlio di Dio ha fatto sulla terra” (dare da mangiare agli affamati, insegnare a coloro che non sanno, guarire i malati, scacciare i “demoni”; in breve, evangelizzare i poveri con le parole e con le opere), la semplice condizione di essere battezzati è sufficiente per realizzare il meglio di questa missione e imitazione. San Vincenzo dice alle Figlie della Carità: “Chiunque abbia visto la vita di Gesù Cristo, vedrebbe qualcosa di simile nella vita di una Figlia della Carità. Che cosa è venuto a fare? È venuto per insegnare, per illuminare. Questo è ciò che fate voi” (IX, 534). In breve: per prolungare al meglio la missione di Cristo nella storia, non c’è bisogno di essere chierici (anche se l’essere chierici non deve, d’altra parte, essere un ostacolo alla missione stessa).
Non è nemmeno necessario essere un religioso. Per di più, San Vincenzo avrebbe trovato nelle strutture religiose del suo tempo difficoltà insormontabili per portare a compimento il suo modo di vivere la fede, la sua spiritualità. Tutte le sue istituzioni sono, senza eccezione, laiche nella misura in cui si oppongono all’istituzione religiosa. E quasi tutte sono laiche anche in contrasto con la condizione clericale. L’unica eccezione in questo secondo senso è la Congregazione della Missione, ma solo in parte, poiché i confratelli non sono chierici. Ma anche nei chierici della Congregazione della Missione l’aspetto missionario (poiché sono stati creati per la missione) doveva predominare su quello clericale. Per essere pienamente clericali secondo l’idea di Trento, non era necessario fondare la Congregazione della Missione. L’Oratorio di Berulle era già stato fondato a questo scopo una quindicina di anni prima.
Ma non è solo a livello di teologia che la spiritualità di San Vincenzo porta nuove aperture e prospettive su ciò che è stato progettato nell’ecclesiologia del Concilio di Trento. Essa coinvolge anche i campi della sociologia e della storia. Infatti, l’insieme della sua opera implica, su diversi punti importanti, una rottura con l’alleanza tra il Trono e l’Altare tipica dell’Ancien Régime. Ricordiamo, ad esempio, il suo rifiuto dei benefici ecclesiastici nei confronti dei propri uomini, o l’acuto disagio provato prima e durante la sua partecipazione al Concilio della Coscienza, l’incarnazione più esplicita di questa alleanza. Per Vincent, come per il suo discepolo Bossuet, la Chiesa deve essere soprattutto non la Chiesa dei re e dei ricchi, ma la Chiesa dei poveri.
In breve, quando San Vincenzo morì nel 1660, lasciò ai suoi posteri un’esperienza di fede, una spiritualità ricca e nuova, costruita progressivamente sulle esperienze di Folleville e Chatillon, di cui alcuni dei tratti più salienti sono i seguenti:
a livello personale:
- abbandono di una visione egocentrica della propria fede e della propria vita
- conversione-dedizione ai poveri, con una chiara tendenza a trovare i poveri tra gli emarginati dalla società e dalla Chiesa, ovunque si trovino nel mondo.
- lavorare per i poveri in istituzioni organizzate in comunità e in “équipe”.
- Tutto questo è motivato e guidato dal motivo radicale di “rispondere ai piani di Dio e imitare la vita terrena di Gesù Cristo”.
aspetto teologico:
- l’abbandono di una visione teocentrica a favore di una visione cristocentrica e persino antropocentrica (in conformità con le parole di Cristo stesso: “… l’avete fatto a me”; cfr. anche 1 Gv 4, 21: “Chi non ama il proprio fratello che vede…”).
nell’aspetto ecclesiologico:
- da una visione della Chiesa come società-comunità più o meno chiusa in se stessa, a una visione della Chiesa come decisamente missionaria e aperta al mondo
- da una Chiesa con un elemento prevalentemente clericale-religioso a una Chiesa di carattere più laico e secolare
- da una Chiesa alleata con i poteri politici e finanziari di questo mondo, a una Chiesa rivolta ai poveri.
Jaime Corera C. M.
Fonte: Reavivemos el Espíritu Vicenciano: Semana de Estudios Vicencianos, XXII [Riaccendere lo spirito vincenziano: Settimana di studi vincenziani, XXII] (CEME, Salamanca, 1995).
Domande per la riflessione personale o il dialogo di gruppo:
- Come possiamo rispondere ai disegni di Dio imitando Cristo nel servizio ai bisognosi, sull’esempio di San Vincenzo?
- Quali cambiamenti possiamo apportare alla nostra vita per allontanarci da una visione egocentrica della fede e concentrarci maggiormente sul servizio ai poveri?
- Come possiamo coinvolgere la nostra comunità ad essere più attiva e impegnata nei confronti dei bisogni dei più vulnerabili?
- Come possiamo fare in modo che le nostre opere di carità non solo allevino la povertà, ma lavorino anche per la giustizia sociale?
- Cosa possiamo imparare dalla spiritualità vincenziana per applicarla alle sfide attuali dei poveri e degli emarginati?
Jaime V. Corera Andía è nato il 15 giugno 1933 a San Sebastian, Guipuzcoa. Fu nelle Filippine dal 1958 al 1965, dove fu professore di seminario