L’idea di cambiamento sistemico come metodologia propriamente vincenziana nell’assistenza ai poveri sta diventando sempre più cultura condivisa all’interno della famiglia vincenziana. Un esempio di progetto di cambiamento sistemico ci viene dal Madagascar, nel villaggio di Jangany, dove opera da oltre 20 anni il P. Tonino Cogoni, CM. Immaginando com’era quel villaggio nel 1996 e guardando com’è oggi, ci possiamo rendere conto di che cosa significa un “cambiamento sistemico”.
1. Localizzazione del Progetto di cambiamento sistemico
Jangany è un villaggio sperduto del Madagascar, al centro della piana dell’Horombé, quasi irraggiungibile in mezzo alla savana e alla terra rossa bruciata dal sole del Sud Madagascar. Le strade sono semplici piste in terra battuta. I torrenti senza ponti possono essere superati solo attraverso guadi improvvisati. Una ventina d’anni fa Jangany era un tipico villaggio malgascio di 400 abitanti con capanne costruite con legname impastato con fango e copertura di erba filamentosa e secca della savana. La zona missionaria si estendeva per circa 1.000 Kmq ed era abitata da diverse etnie, di cui le più importanti sono i Bara, i Betzileo e i Tandroy, in una quantità che si poteva stimare intorno alle 10.000 unità. Si trattava di gente povera che viveva al limite della sussistenza con ciò che la terra e l’allevamento offriva: il riso, la manioca e la carne degli zebù. Il loro unico vestito era il lamba, una specie di mantello leggero e colorato, che li accompagnava per tutta la vita e con il quale venivano avvolti da morti. Erano popolazioni ricche di tradizioni religiose con i loro riti (fomba). C’erano 19 villaggi che avevano un gruppetto di cristiani grazie all’evangelizzazione dei padri di Ihosy. Il 1° gennaio 1996 vi arrivò padre Tonino Cogoni con il progetto, elaborato con i confratelli italiani della ex Provincia di Torino e il vescovo della diocesi di Ihosy, di farne un centro missionario che avesse a cuore la promozione umana di questa terra.
2. L’idea guida del cambiamento sistemico
Ora Jangany è diventata una cittadina di circa 9.000 abitanti, dove i battezzati sono diventati il 15%della popolazione e la gente ha elevato il proprio standard sociale di vita e molti poveri hanno trovato la possibilità di innalzare la propria condizione umana. Il villaggio è cresciuto perché gli abitanti dei villaggi vicini hanno cominciato a convergere verso di esso trovandovi risposte ai loro bisogni essenziali: scuola per i figli, possibilità di lavoro, cura della salute, maggiore possibilità di scambio commerciale. Il mercato di Jangany è diventato il più importante di tutta la zona e uno dei maggiormente frequentati del sud Madagascar. L’idea-guida del progetto è stata, ed è, che l’evangelizzazione passa attraverso la promozione umana. Il motore dello sviluppo è stata l’offerta della prima scolarizzazione per i bambini, che è arrivata a coinvolgere la quasi totalità di bambini e ragazzi (circa 3000 su un totale di 3.300). Il progetto di alfabetizzazione esteso a tutti i bambini della regione ha coinvolto le famiglie che hanno intravisto la possibilità di un futuro per i figli. Non a caso la gente di altri villaggi dice: “Beata Jangany che ha messo testa nuova”. Il superamento delle resistenze culturali è stato possibile attraverso la sinergìa con le Figlie della Carità e i confratelli, tutti malgasci. Contemporaneamente al progetto-scuola si è incentivata l’attività socio-economica con al centro la soluzione dei problemi dell’acqua, dell’energia elettrica e della salute, in particolare con un dispensario che, oltre alle malattie comuni, si prendesse cura delle partorienti per diminuire la mortalità infantile. Infine, man mano che i ragazzi della scuola primaria crescevano, è nata l’esigenza di aprire un orizzonte positivo per il futuro delle nuove famiglie. Evidentemente la possibilità di sviluppo per una regione dislocata come Jangany è soltanto l’agricoltura e l’allevamento. E di conseguenza, poiché il livello delle coltivazioni agricole era molto primitivo e con colture assai limitate alla tradizione, la Missione ha aperto un Centro di Formazione agraria per introdurre nuove tecniche per l’allevamento di animali e la diffusione di nuove colture. Ultimamente, istituendo un Liceo per gli studi superiori, il progetto-Jangany ha potuto sopperire alle esigenze dei giovani maggiormente meritevoli impediti di avanzare negli studi a causa della lontananza dai centri dove ci sono le scuole superiori. Tutto questo ha permesso a questa cittadina di evolversi progressivamente ed attirare tante famiglie dalla brousse, cioè dalla savana. L’energia di cambiamento è da attribuibile alla costanza di padre Tonino di credere nell’impresa di sviluppo di questo territorio, ma soprattutto alla capacità di coinvolgimento di tutte le forze positive della gente, a partire dalla fiducia accordata ai missionari e alle Figlie della Carità del Madagascar. Non indifferente è stato l’apporto di una rete di volontari italiani, che hanno offerto un supporto di maestranze, di tecnica e di sostegno economico in questa impresa di sviluppo sociale. Questa rete viene continuamente alimentata attraverso il mantenimento dei rapporti, l’esame dei bisogni che si evidenziano e l’elaborazione di microprogetti che risolvano i problemi evidenziati.
3. Il salto sociale con l’energia elettrica solare
Il salto sociale di grande importanza è avvenuto a partire dal settembre 2016, quando il villaggio, la Missione e le sue scuole hanno potuto liberarsi dalla dipendenza dal gasolio per l’energia elettrica, che aveva un costo assai elevato per le risorse di questa gente. I costi del gruppo elettrogeno che funzionava a gasolio erano diventati insostenibili e finiva per essere un freno per lo sviluppo: l’energia per i pozzi e le officine, la luce delle scuole e del pensionato, le poche case del villaggio collegate a questi generatori funzionavano a singhiozzo. Fino a quella data il gruppo elettrogeno erogava l’energia ogni sera dalle sei alle nove. Vi era un contatore che teneva sotto controllo i consumi e le spese. Le famiglie collegate con l’elettricità erano un centinaio e avevano potuto esperimentarne l’utilità. Così la richiesta era cresciuta assai, ma le spese cominciavano a non essere più sostenibili. Si è allora fatta la scelta di puntare sull’energia solare: energia pulita e poco costosa, tranne l’impiantistica e la sua manutenzione. Dopo tre anni di studio del problema, sette tecnici volontari di Torino hanno portato il materiale dall’Italia e hanno posizionato molti cavi e un intero campo di pannelli solari per la produzione di 64 Kwp. I cavi portanti (800 mt) sono stati interrati a un metro di profondità in un paio di giorni con l’impegno di centinaia di ragazzi del villaggio. Le centraline sono state cablate sull’impianto di distribuzione. E due km di cavi derivati hanno iniziato a distribuire l’energia fotovoltaica a tutto il villaggio, la scuola e il centro di formazione agraria. Adesso con l’energia si possono iniziare anche nuovi progetti di lavoro. E’ stata una gioia per i bambini vedere sgorgare l’acqua dai rubinetti nelle vicinanze delle loro aule scolastiche. In questo modo anche la scuola agraria ha potuto fare un balzo in avanti, perché le pompe ad immersione, che attingevano da altrettanti pozzi, hanno permesso di irrigare i campi e portare acqua alle stalle con la quantità e continuità necessarie, che prima mancavano.
4. I principali fattori del cambiamento sistemico
In sintesi, si può dire che il cambiamento sistemico si è generato grazie a alcuni fattori che possono essere riassunti in questi elementi:
1. L’aver messo al centro l’istruzione delle giovani generazioni.
2. L’essere stati attenti a valorizzare le risorse locali. Per esempio: l’energia elettrica è stata affidata alla gestione di un clan familiare; per la costruzione di abitazioni in mattone e dei pozzi d’acqua si sono formati maestranze locali, affidando poi la loro le realizzazioni delle case.
3. La collaborazione paziente, anche se talvolta complessa, con le figure istituzionali del sindaco, del medico locale e l’attenzione al rispetto delle norme nazionali.
4. L’uscita dall’isolamento mediante strade e ponti, in modo da integrare il villaggio con i villaggi vicini. Infine l’aver installato una parabola satellitare ha permesso a partire dal 2019 la comunicazione con il resto del mondo.
5.La collaborazione con gruppi associativi italiani, basata non solo sull’aiuto economico, ma anche sullo scambio culturale e su intese progettuali (cf https://jangany.tumblr.com)
5. Il progetto continua
In tutti questi anni c’è stato un elevamento sociale di tutto il villaggio di Jangany e del suo territorio. Lo confermano alcuni indicatori: il passaggio della vita media da 37 a 45 anni; il popolamento del villaggio da 400 a circa 9000 abitanti. La necessità del futuro, alla quale si sta lavorando è l’allargamento del dispensario medico. Attualmente la suora che si occupa del dispensario è in contatto con l’ospedale di Sakalalina (che dista circa 150 km), al quale si rivolge per le situazioni più difficili. Quest’ospedale ha dato la disponibilità di istruire delle giovani in modo da preparare il personale. Questa sarà la nuova frontiera per i prossimi anni. Persistono a Jangany gravi problemi, che possono riassumersi attorno a quattro parole: fame, brigantaggio, corruzione della pubblica amministrazione e malattia. La missione cerca di rispondere a questi mali, ma è sempre inadeguata al numero delle situazioni. In Madagascar tutto è lento, quindi ci vorrà tempo per dare risposte a questi problemi. Ma la via sicura è l’educazione delle nuove generazioni. Ed è la via che ha già dato buoni risultati.
P. Erminio Antonello, CM
Visitatore della Provincia d’Italia
Fonte: https://cmglobal.org/
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