Alessandro Ginotta – Discorso Simposio #2: Educazione – Comunicazione per la Mobilitazione

Qual è il nostro punto di partenza?

 Permettetemi di rompere il ghiaccio con un aneddoto: pochi mesi fa mi trovavo in una chiesa, non molto lontano di qui, per presentare il mio libro. Quando ebbi terminato di parlare mi si avvicinò un religioso e mi porse una scatola che teneva sotto il braccio. Era un regalo per me. “E’ preziosissimo” mi disse. Un po’ emozionato lo aprii. Alzando il coperchio vidi solo una nuvola azzurra. Capii dopo che si trattava di un cuscinetto in organza tutto a sbuffi, doveva essere lì a protezione di qualcosa di veramente speciale. Alzai gli occhi per scrutare lo sguardo della persona che mi stava offrendo quel cofanetto; lui annuì e ribadì: “E’ una delle cose più preziose che io abbia mai posseduto”. Perché mai farmi un dono simile? Presi un bel respiro e fremendo per la sorpresa e per la curiosità rimossi con delicatezza il panno. Quel che vidi mi sorprese davvero: adagiato su un altro cuscino azzurro mi guardava il Volto di Cristo. Era un frammento di Crocifisso delle dimensioni di una ventina di centimetri. Il busto, il viso, le braccia, senza mani e senza gambe. “Questo Crocifisso ha una storia – mi disse finalmente l’uomo – è stato trovato nella spazzatura, tutto rotto; io l’ho ripulito, riverniciato e l’ho conservato come un tesoro. Ed ora ho piacere che lo tenga tu”. Era, ed è ancora, lucidissimo, parrebbe nuovo se non fosse per le parti mancanti. Ai piedi del cuscinetto trovai una busta contenente un biglietto. Il donatore mi incoraggiò a leggerlo. C’era scritto: “Con l’augurio che proprio tu possa diventare le gambe e le braccia di Gesù”. Io rimasi estremamente colpito ed onorato per questo dono, ma percepii anche il forte peso della responsabilità nell’accettarlo.

Ecco. La Famiglia Vincenziana è così. Noi siamo così: abbiamo la responsabilità di essere “le gambe e le braccia di Gesù”. Lo sapeva bene San Vincenzo De Paoli, che soleva ripetere “Dobbiamo amare Dio e i poveri, ma a spese delle nostre braccia e col sudore della nostra fronte”. E ancora quando incitava le Figlie della Carità: “Dieci volte il giorno andrete a visitare gli ammalati, e dieci volte vi incontrerete Dio”. Sì, perché così è l’incontro con Dio: uno scambio di amore: Gesù sussurra al nostro cuore e ci incoraggia ad andare verso i poveri, ad andare a testimoniare il suo amore presso di loro. Ma poi, quando incontriamo il bisognoso, se lo guardiamo bene, nei suoi occhi possiamo scorgere quelli di Gesù. Egli è lì, nascosto dietro la pelle resa rugosa dalla sofferenza; qualche volta ci guarda attraverso una lacrima; ma spesso ci parla dietro un sorriso. Quel sorriso che, quando riusciamo a fare breccia nella scorza di dolore, di privazioni, di difficoltà, trasforma quel volto corrucciato nella più bella espressione che mai potremo vedere: il sorriso del povero che ci ringrazia, il sorriso di Gesù!

Portare l’amore di Cristo agli ultimi e da loro riceve l’amore di Cristo in persona. Ecco qual è il nostro compito.

Tutti noi partiamo da esperienze diverse: culture, lingue, organizzazioni, generazioni. La Famiglia Vincenziana è estremamente eterogenea: religiose, sacerdoti, laici, giovani, anziani, congregazioni religiose e varie associazioni. Oggi qui ci troviamo divisi in sei gruppi linguistici. Siamo presenti nei cinque continenti in oltre 150 paesi diversi. Domani andremo tutti assieme attorno al Santo Padre ed alla Reliquia del cuore di San Vincenzo De Paoli. Ed è questo che ci unisce: l’eredità che abbiamo ricevuto. L’insegnamento di San Vincenzo è il nostro punto di partenza:

  • servire il povero;
  • alleviare le sue miserie;
  • portare al povero la Buona Novella; o, come recita il Regolamento della Società di San Vincenzo de Paoli: “Portare la testimonianza dell’amore liberatore e della compassione di Cristo per gli uomini” (Art. 1.2).

Figlie della Carità, Gruppi di Volontariato Vincenziano, Padri della Missione, Società di San Vincenzo De Paoli, e tutte le altre realtà che compongono la Famiglia Vincenziana, quante cose ci accomunano! Siamo così tanti ed apparteniamo a realtà talmente vaste che talvolta, come accade in tutte le famiglie, spunta qualche timore perfino al nostro interno. Ma la paura dell’altro si supera con una maggiore conoscenza. Ed eventi come questo in cui ci possiamo confrontare, incontrare, conoscere e riconoscere, servono proprio a cementare la nostra unità.

Tutti insieme, come movimento, siamo in un cammino nuovo, che trasforma. Mi piace riallacciarmi alle esperienze di due dei nostri fondatori: San Vincenzo De Paoli ed il Beato Federico Ozanam. E’ bello vedere come entrambi abbiano maturato la loro esperienza in cammino. Ce ne possiamo rendere conto leggendo la biografia di San Vincenzo De Paoli, o la bellissima raccolta di lettere di Federico Ozanam: “Il cuore ha sete di infinito” curata dallo storico vincenziano Maurizio Ceste. E’ consolante sapere che anche anche loro hanno dovuto faticare, come noi, per spogliarsi dei loro difetti. Sappiamo che San Vincenzo scelse inizialmente la vita clericale spinto da uno scopo utilitaristico. Dall’altra parte anche Federico Ozanam non esitò a ricorrere all’appoggio di amici e personaggi influenti per migliorare la propria posizione lavorativa.

Proseguendo nella lettura delle loro vite scopriamo che, a poco a poco, in cammino, essi maturarono, avvicinandosi di più a Dio. E, come avvenne a Zaccheo,  l’uomo che “si lascia incontrare da Gesù” viene trasformato, rinnovato, abbandona il bagaglio dei propri peccati e si incammina verso una vita nuova. Ma vediamo come è avvenuto questo incontro: ci troviamo a Châtillon, è domenica 20 agosto 1617, e Vincenzo si sta preparando per celebrare la Messa quando una signora irrompe in sacrestia con una notizia importante: una famiglia intera aveva bisogno di aiuto. Vivevano ad un chilometro di distanza dalla chiesa. Erano tutti ammalati e non disponevano né di cibo, né di medicine. Questo fatto colpì così tanto Vincenzo che, durante l’omelia lanciò un appello alla carità. La risposta a questa chiamata fu molto forte: per tutta la giornata accorsero in canonica persone generose per portare aiuti a quella famiglia. Ma questo non bastava. No, perché per quanto cibo avessero raccolto in quella giornata, di lì a poco le provviste sarebbero terminate di nuovo. San Vincenzo ci insegnò, 400 anni fa, che non è sufficiente tamponare un’urgenza fornendo un aiuto materiale. Certo, sì, questo è doveroso, ma per sconfiggere il demone della povertà occorre fare molto di più!

Occorre organizzare la Carità in modo tale che questa non si esaurisca in un intervento estemporaneo fine a se stesso; bisogna costruire una struttura stabile, sempre presente, capace di rispondere costantemente attraverso la Carità agli attacchi della miseria. Nacque così la prima Confraternita della Carità: “una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia”. Il primo nucleo da cui si sviluppò quanto noi siamo oggi.

Gannes, Folleville, Châtillon, Vincenzo girava per la campagna ed ovunque incontrava miseria ed abbandono: «un popolo che si danna perché non ha le cose necessarie per la salvezza e non sa confessarsi» (SV I, p. 115). Iniziò così ad avviare missioni nei villaggi. Le confraternite della Carità si moltiplicavano rapidamente. E rapidamente si unirono a Vincenzo altri sacerdoti, che dettero vita alla Congregazione della Missione.

Ma, come recita un antico detto: “Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”. Come non ricordare Santa Luisa de Marillac, la più fedele collaboratrice di San Vincenzo e cofondatrice delle Figlie della Carità (1633)?  “L’incontro tra due anime, tra due vocazioni, tra due compiti o “missioni” non è mai affidato alla sorte: fa parte di un accurato disegno di Dio, amorosamente preparato da tutta l’eternità” (P. Antonio Maria Sicari). Vincenzo e Luisa costituiscono un’autentica rivoluzione al servizio dei poveri. Un’espressione di quella Chiesa in uscita tanto cara a Papa Francesco: «non avendo per monastero, che le case dei malati e quella in cui risiede la Superiora, per cella una camera d’affitto, per Cappella, la Chiesa parrocchiale, per Chiostro le vie della città, per clausura l’obbedienza, non dovendo andare che dai malati o nei luoghi richiesti dal servizio, per grata il timore di Dio, per velo la santa modestia» (San Vincenzo de’ Paoli, Regole delle Figlie della Carità. Serve dei Poveri malati).

Facciamo un salto di 200 anni ed andiamo ad incontrare un altro uomo: Federico Antonio Ozanam, giornalista e scrittore, professore universitario. Lo troviamo nel 1833 quando, all’età di soli vent’anni, dalla nativa Lione si sposta a Parigi per studiare alla Sorbona. Federico non conosceva ancora bene le strade della città ed un giorno si smarrì. Finì ben presto in un quartiere operaio, popolato da poveri che abitavano in casette scalcinate ed ammuffite. Vicoli oscuri si alternavano a sordide piazzette. Ovunque fame, povertà e malattia.

Ma, come già detto, dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Avvenne così che Federico in quelle stradine incontrò suor Rosalia Rendu, oggi Beata. Una Figlia della Carità. Erede di quel carisma che animò San Vincenzo De Paoli e Santa Luisa de Marillac.

Suor Rosalia stava sorreggendo un mendicante. Il poveretto, curvo sotto l’età e gli acciacchi si muoveva con difficoltà. La suora, chiese ed ottenne l’aiuto di Ozanam per accompagnare il mendicante alla propria casa. Federico acconsentì. Ed acconsentì anche a tornare di lì a poco in quel quartiere per occuparsi delle opere di carità.

Fu suor Rendu ad accompagnare Ozanam, Le Taillandier, Lamache, Lallier, Devaux, Clavè e Bailly – i fondatori della Società di San Vincenzo De Paoli – a visitare i poveri nelle soffitte di Parigi. Fu lei, una Figlia della Carità ad ispirare la scelta di Vincenzo De Paoli come Santo Patrono per la neonata Società. Collegamenti, coincidenze, il filo dell’amore che lega personaggi, anche lontani fra di loro nel tempo, ad un destino comune.

E con questo abbiamo fatto un po’ di storia. Ed insieme abbiamo fatto della formazione. E’ importante conoscere le proprie origini per scoprire che, per quanto partiamo da esperienze diverse, tutti insieme, come movimento, lavoriamo per perseguire gli stessi obiettivi. All’interno della Famiglia Vincenziana coabitano Congregazioni, Movimenti, Associazioni, Gruppi che si riconoscono, in modo diretto od indiretto, ispirati al Carisma Vincenziano di cui oggi celebriamo il quattrocentesimo anniversario. Le mani delle religiose, dei sacerdoti, dei volontari, continuano da quattrocento anni a portare conforto ai poveri. Mani che lavorano per un obiettivo comune. Mani che, oggi qui si possono incontrare, riconoscere, stringere.

In questo momento mi viene un’immagine in mente: scorgo la mano di un volontario che sorregge nella sua quella di un povero. Accanto a lui, dall’altra parte, una Figlia della Carità che lo sostiene. Ecco un’istantanea di quella che è oggi la Famiglia Vincenziana! Le mani che aiutano si incontrano attraverso il bisognoso. Comunicano attraverso quel Gesù che ha preso dimora nella persona in difficoltà. Un flusso di amore che ci unisce. Un obiettivo che ci accomuna.

Voi mi avete chiamato qui oggi, come comunicatore. E allora vorrei proseguire in questa strategia di comunicazione un po’ innovativa. Facciamo ancora uno sforzo con l’immaginazione e pensiamo a due “fumetti” che escono dalle labbra dei due personaggi.

A sinistra il volontario, al quale affidiamo le parole del Beato Federico Ozanam: “L’assistenza onora quando tratta il povero con rispetto, non solo come un eguale, ma come un superiore, poiché sopporta quello che forse noi non sopporteremmo, perché è tra noi come un inviato di Dio per mettere alla prova il nostro senso di giustizia e la nostra carità, e per salvarci per mezzo delle nostre opere” (dall’articolo “Dell’assistenza che umilia e di quella che onora”, l’Ère Nouvelle, 1848).

A destra la sorella, nel cui fumetto scriviamo idealmente questa frase: “Siate molto affabili e dolci con i vostri poveri; sapete che sono i nostri padroni e che si devono amare teneramente e rispettare grandemente”. Sembrano parole di San Vincenzo De Paoli, invece sono di Santa Luisa de Marillac (Scritti Spirituali L. 284b, p.371).

Eccola, la nostra Emmaus: i nostri occhi si aprono nell’esperienza dello spezzare il pane. Il segno di riconoscimento di Gesù è il suo Corpo spezzato, vita consegnata per nutrire la vita. Ma il messaggio di Emmaus non si esaurisce qui. E’ anche il passaggio dal buio dello scoraggiamento e della delusione alla luce della gioia di riconoscerlo Risorto. Qualche volta anche per noi scende il “buio”. Ci può accadere di trovarci lontani da Dio. E allora anche visitare il povero diventa difficile, pesante, impegnativo. Ci costa fatica. Ma quando riusciamo a prepararci bene spiritualmente, quando siamo bene formati, allora come ad Emmaus, passiamo dall’oscurità alla luce.

E questa “marcia in più” questa capacità – potremmo dire – di “vedere anche al buio”, è quanto ci differenzia dalle altre associazioni e dalle Ong. Perché, come diceva San Vincenzo De Paoli: “E’ nella preghiera che prendiamo la forza per animarci al servizio di Dio e del prossimo”.

Educazione e Formazione sono indispensabili per prepararci adeguatamente ad incontrare il povero, per alleviare le sue difficoltà, per assisterlo nei problemi burocratici e legali. Dobbiamo essere preparati per poter fornire ad ogni domanda di volta in volta le risposte più adeguate. Serve dunque una preparazione continua centrata sulla Spiritualità Vincenziana, ma capace di spaziare anche sulle problematiche più specifiche del sociale: non si tratta di creare dei professionisti, degli specialisti delle varie aree – ma certamente di garantire al soggetto in difficoltà ed a chi lo avvicina, oltre alla disponibilità alla relazione, una preparazione di base adeguata.

Oggi più che mai serve una formazione che abbia anche un orientamento multiculturale. Occorre insegnare al volontario come comportarsi ed interagire con persone in difficoltà provenienti da ogni parte del mondo, spesso con usi e costumi, civili e religiosi, anche molto diversi dai nostri.

Specialmente per quei rami della Famiglia costituiti da volontari, occorre fare sì che la formazione risulti gradevole e gradita: i corsi dovrebbero venire formulati mediante il confronto di esperienze e la sperimentazione, utilizzando un modello laboratoriale-partecipativo invece delle classiche lezioni frontali. L’incontro di gruppo permette infatti di confrontarsi e valutare obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo di tutti. E’ questo un bel modo per creare affiatamento e spirito di appartenenza.

Occorre sempre ricordare che il volontario dona una parte del suo tempo alle associazioni, ma vive in altre realtà che lo condizionano: lavoro, problemi familiari, talvolta difficoltà di salute. E’ necessario dunque che si senta sempre accolto e che il suo ruolo venga sempre valorizzato. Se saremo capaci di riconoscere con efficacia il contributo offerto da ogni singolo volontario ci assicureremo motivazione, fedeltà e partecipazione attiva. Perché i volontari sono la principale ricchezza delle associazioni.

Per riallacciarmi alla metafora di apertura “le braccia e le gambe di Cristo” sono proprio loro: i volontari che operano sul territorio, a diretto contatto con il povero.

Ma la Famiglia Vincenziana non è fatta solo di volontari. E proprio perché è una realtà composita, e per questo “ricca”, è opportuno che coltivi momenti come questo in cui ciascun gruppo possa condividere le proprie esperienze con gli altri per “crescere insieme”.

Crescere, condividere, educare. Vorrei sottolineare in modo particolare quest’ultimo verbo. San Vincenzo non solo amò i poveri, ma volle anche insegnare ad amare i poveri. Per questo egli fu un grande educatore del popolo cristiano, perché, attraverso la formazione delle coscienze, i fedeli potessero praticare un amore effettivo, condividendolo con coloro che vivevano nella sofferenza e nel  disagio.

Anche il Beato Federico Ozanam, da buon docente universitario, si impegnò nell’ “educare alla Carità”. Leggiamo in una lettera del 19 settembre 1845, indirizzata al Presidente e ai membri della Società di San Vincenzo De Paoli del Messico: “Il nostro primo scopo è stato quello di consolidare la fede e di rianimare la carità nella gioventù cattolica, di rafforzare i ranghi con amicizie edificanti e solide, e di formare così una nuova generazione, capace di riparare, se è possibile, il male che l’empietà ha fatto nel nostro paese”. Vedete? Aiutare il povero diventa un mezzo per insegnare la Carità ad una generazione che l’ha dimenticata. Quanto sono attuali queste parole di Ozanam! Quanto servirebbe – no quanto serve! – sì, quanto serve oggi risvegliare nell’animo delle nuove generazioni quell’amore verso il povero che l’uomo degli inizi del nuovo millennio pare avere completamente cancellato.  “II primo modo di realizzare questo disegno – prosegue Ozanam – fu di radunarsi tutte le settimane, di imparare così a conoscerci e ad amarci” ecco l’importanza di incontrarsi, di scambiarsi le proprie esperienze, condividere le conoscenze.  “E al fine di dare un interesse alle nostre riunioni, intraprendemmo la visita dei poveri a domicilio: gli portammo del pane, dei soccorsi temporali di vario genere, e soprattutto dei buoni libri e buoni consigli”. La visita a domicilio. L’incontro privilegiato con Cristo che si nasconde nel povero, come abbiamo visto prima. Vorrei focalizzare un istante l’attenzione sulla conclusione di questa frase: pane, soccorsi temporali di vario genere e “soprattutto dei buoni libri e buoni consigli”.

Da qui emerge chiaramente che il nostro compito non si estingue portando il cibo ai poveri, nè pagando le loro bollette… no, noi abbiamo altri due “imperativi”:

  • Affiancare il bisognoso sostenendolo in un percorso inclusivo di crescita personale finalizzato alla fuoriuscita dalla sua condizione di difficoltà.
  • “Educare” alla Carità. Nel nostro tempo assistiamo al trionfo dell’indifferenza e dell’individualismo. Carità, solidarietà, pietà e compassione, sembrerebbero ormai sentimenti “in disuso”.

Non può esistere però una Carità operosa, come la nostra, disgiunta da quella intellettuale, quella cioè che comprende l’impegno educativo. Da qui un nuovo invito a fare formazione e comunicazione non solo al nostro interno, ma anche fuori.

Ed eccoci arrivati all’ultimo argomento: la comunicazione.

La Carità è silenziosa. Chi la esercita non ama mettersi in mostra. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3) è una delle più frequenti obiezioni che riscontro quando propongo un progetto di comunicazione. Sorrido perché su queste cose discuteremo in un Convegno dal titolo: “Carità e Media” che si terrà tra poche settimane e al quale abbiamo invitato televisioni, radio, ed i direttori dei principali periodici cattolici e non a discutere.

Il messaggio che vorrei portarvi oggi è questo: E’ vero, non dobbiamo “ostentare” il gesto, ma come abbiamo visto poco fa, abbiamo il dovere di favorire lo sviluppo di una coscienza comune orientata alla Carità! Ciò che viviamo non potrà mai pretendere di risolvere le diverse forme di povertà, ma deve favorire una crescita, deve animare noi stessi, le persone che incontriamo, le nostre comunità, la società tutta. Ecco che i mezzi di comunicazione possono diventare uno strumento pedagogico capace di “contaminare” la società un po’ assente che ci circonda, stimolandola con il nostro esempio.

Perdonatemi se citerò un’altra frase del Beato Federico Ozanam, ma non possiamo parlare di comunicazione senza ricordare che proprio Ozanam era un giornalista. Egli scriveva: “In momenti di mancanza di unione nei quali la maggior parte delle persone si danno da fare per odiarsi, siamo troppo felici per tutto ciò che unisce: come potremmo non impegnarci ad amare?”. E’ proprio con questo spirito che dobbiamo fare sì che il nostro amore diventi germe di Carità nei cuori aridi del nostro tempo.

Ecco perché non dobbiamo farci sfuggire neppure un’occasione per essere presente sui media: dobbiamo fare in modo che la nostra esperienza, il nostro carisma, il nostro amore verso il povero contagi il più possibile il mondo.

Ma se vogliamo raggiungere le persone dobbiamo usare gli strumenti giusti. Oggi la comunicazione passa sempre meno per i canali tradizionali.

La gente legge sempre meno libri: i dati ISTAT ci dicono che sono circa 33 milioni le persone con più di 6 anni che non hanno letto nemmeno un libro nel corso del 2016, vale a dire il 57,6% della popolazione. Il 10% delle famiglie non possiede neppure un libro in casa. E quello che più preoccupa è che il calo rispetto al passato è vertiginoso: oggi ci sono 4 milioni (4.300.000 per la precisione) di lettori di libri in meno rispetto al 2010.

E questa fotografia la possiamo estendere alla maggior parte dei quotidiani e delle riviste. Soltanto radio e televisione stanno reggendo l’impatto di internet.

In rete la comunicazione avviene in modo originale, perché perché in internet non esiste un’emittente con i suoi utenti passivi ed isolati. Tutto è interconnesso. In un certo senso la comunicazione sul web è “sociale”: chiunque può virtualmente diventare emittente e al tempo stesso fruitore di contenuti.

Questo fatto è contemporaneamente un vantaggio ed uno svantaggio. Il vantaggio è che oggi attraverso il web è molto più facile di un tempo raggiungere un gran numero di fruitori dei nostri contenuti. Lo svantaggio è che, come noi, tutti hanno la possibilità di diffondere i loro messaggi. Con il problema che in rete si viene a generare un gran “rumore” dove la buona notizia si mescola pericolosamente con quella cattiva. La buona ispirazione si presenta accanto al contenuto-spazzatura.

E se è vero che comunicare su internet sembra facile ed alla portata di tutti, per comunicare in modo “efficace” sul web occorre padroneggiare bene le tecniche, studiare e creare una comunicazione personalizzata ad hoc. Qualche volta, un po’ semplicisticamente, si pensa che possa essere sufficiente aprire un profilo social e pubblicare di tanto in tanto un post. No. Non è sufficiente un post su facebook o un tweet per raggiungere gli utenti. Occorre scegliere con cura le parole da inserire nello spazio dei 140 caratteri, per catturare l’attenzione, occorre farlo al momento giusto, miscelando con attenzione testo, immagini e video. E… una volta catturata l’attenzione del fruitore di contenuti, occorre tenerlo vivo, partecipare alla discussione, prestare molta attenzione ai messaggi ed ai commenti, moderarli, cancellare quelli più fuori-tema ed offensivi per mantenere sempre il livello della comunicazione adeguato agli standard che ci siamo prefissati.

Tuttavia non possiamo lasciarci sfuggire questa opportunità! Abbandoniamo il timore di comunicare e varchiamo coraggiosamente questa soglia: Internet può offrire magnifiche opportunità se utilizzato con competenza e con una chiara consapevolezza della sua forza e delle sue debolezze.

E tra le varie opportunità a disposizione non possiamo non pensare al social marketing. Un esempio lo abbiamo in San Vincenzo con il progetto: “Donne di Ferro” dell’ACC di Cuneo: Il progetto prevede l’accompagnamento e la formazione al lavoro delle donne in difficoltà ospiti della comunità alloggio Casa Madre della Speranza di Cuneo, con l’obiettivo di realizzare una stireria aperta a tutti. Una realtà che funziona, e che ben si richiama al tema del nostro Giubileo: “Ero straniero e mi avete accolto”.

Una delle fonti di finanziamento del progetto è proprio la raccolta di fondi online, tramite il social marketing. Ecco un bel modo di mettere internet al servizio della solidarietà.

Social network, Facebook, Twitter, Google… sono tutti strumenti che non dobbiamo avere paura di usare, anzi, siamo chiamati ad utilizzare per far sì che sul web (e dunque nel mondo) non si trovi soltanto “spazzatura” ma anche informazione autorevole e pertinente.

L’importante è non perdere l’occasione di portare il nostro messaggio a conoscenza di tutti. Alla platea più ampia disponibile. Siamo tutti chiamati, come leggiamo nel titolo di questo intervento: a comunicare per mobilitare. Mobilitare i cuori, scuoterli dal torpore e dall’apatia di questo mondo individualista, che vede ciascuno chiuso nel proprio guscio, nel proprio confine, prigioniero di un muro di egoismo che ci separa dagli altri e dall’amore di Dio.

Concludo con un’ultima citazione, del biblista Bruno Maggioni: “Vieni e vedi” (cfr. Gv 1,39). “Quando t’imbatti in una cosa bella, la racconti. E quando t’imbatti in una cosa vera, la dici. E se hai capito che la storia di Gesù ha illuminato il cammino del mondo e dell’uomo dandogli senso, allora lo racconti. Non puoi farne a meno. E se l’incontro con Gesù ha cambiato la tua esistenza dandole forza, direzione, senso, allora inviti gli amici a condividerla”.

Alessandro Ginotta
Ufficio Stampa
Società di San Vincenzo De Paoli

a.ginotta@libero.it
http://www.labuonaparola.it

 

Documento PDF: Educazione – Comunicazione per la Mobilitazione


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