Perché ricevere l’Eucaristia in mano è più significativo?

da | Apr 27, 2017 | Liturgia | 0 commenti

Ricevere la comunione in bocca o in mano? Risponderei: come ha fatto Gesù nell’ultima cena? Salvo casi particolari, è certamente più vicino al simbolismo della cena il ricevere il pane consacrato in mano, a meno che non siamo davanti a lattanti o infermi. Inoltre, nel linguaggio comune che cosa significa il verbo prendere? Penso che non significhi imboccare. Qualcuno direbbe che in questo caso si può prescindere dal significato, ma perché in liturgia le parole debbono cambiare il significato che hanno nella vita quotidiana? La liturgia è quella che fonda la vita cristiana, infatti la celebrazione dell’Eucaristia è definita fons et culmen della vita cristiana, dal Concilio Vaticano II.
Certo chi riceve la comunione deve mangiarla subito dopo averla ricevuta, mettendosi a fianco dei comunicandi. È vero che qualcuno potrebbe profanare l’eucaristia usandola per altri scopi, ma questo può avvenire anche ricevendo la comunione direttamente in bocca. In ogni caso ritengo molto più significativo ricevere l’eucaristia in mano: Gesù si mette nelle nostre mani, e noi diventiamo responsabili di lui. Per i tanti incidenti che avvengono sulle strade nessuno ha pensato di proibire le auto. Così per evitare eventuali abusi eucaristici di qualcuno, si dovrebbe impoverire il gesto comunionale naturale della cena del Signore? Ricevere la comunione in mano non è una concessione ma è l’atteggiamento più naturale, semmai è una concessione, un adattarsi alla situazione, il riceverla in bocca. Ricevere la comunione in bocca è il gesto del viatico o nel battesimo dei bambini. Su queste cose troppo gioca l’ideologia, cioè una precomprensione generale, più che l’intelligenza del rito particolare.
In ogni caso occorre ribadire la centralità della celebrazione liturgica nella vita ecclesiale, la quale deve essere adorante, verticale e non soltanto orizzontale, ma che ha il suo segno fondamentale (la sua “forma”) nella cena del Signore o frazione del pane, che Gesù ci lasciato in sua memoria: «fate questo in memoria di me». Ma anche in questo caso, se il presidente della celebrazione accentrasse l’attenzione su di sé, farebbe forse una buona catechesi, o una buona festa comunitaria, ma toglierebbe qualcosa al “segno” voluto dal Signore. Non si può fare la festa di Natale dimenticando colui che celebriamo, diceva qualcuno; così non si può fare la festa del banchetto dimenticando chi mangiamo e beviamo. Le cose sarebbero ovvie se nelle nostre liturgie apparisse più la comunità celebrante che il presidente di turno.
A parte il fatto che liturgia ordinaria e liturgia straordinaria non sono sullo stesso piano, quasi due realtà complementari. La forma straordinaria è una concessione per alcuni, una eccezione, se no non sarebbe straordinaria. La riforma liturgica del Vaticano II è l’unica liturgia romana attuale, salvo negare la riforma stessa; non sono certamente le preghiere ai piedi dell’altare, l’esser rivolti a oriente, il manipolo e la pianeta e il canone romano a costituire il rito romano autentico.
Ben vengano in ogni caso questi dibattiti per comprendere meglio la chiesa e la sua preghiera. Non dobbiamo essere persone che si fissano su una idea sola, che hanno letto un solo libro, quando la realtà è più complessa. Poi c’è sempre il rischio, in queste discussioni, che accada come nella antica favola del lupo e dell’agnello, che uno trovi sempre nuovi pretesti per rimanere della sua idea.

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